Banche vs direct lender, la sfida è iniziata

L’ultima novità arriva da Blackstone, il quale, stando alle indiscrezioni di Bloomberg, attraverso la controllata Gso Capital Market punterebbe a raccogliere da qui a fine 2019 almeno 10 miliardi di dollari in un fondo che investirà anche in direct lending, ossia presterà soldi direttamente alle piccole e medie imprese. Se così fosse il colosso Usa confermerebbe ancora una volta l’irruenza del mercato del prestito diretto che, anche in Italia, ha tutte le carte in regola per porsi come alternativa a quello bancario. Ma cosa ne pensano le banche? Prima di rispondere a questa domanda occorre guardare l’entità del fenomeno.

 

Mercato a nove zeri

Alimentati dalla grande quantità di cash proveniente da investitori affamati di rendimenti, i private equity hanno iniziato a finanziare operazioni leveraged e non solo quelle più rischiose che le banche non prendono in considerazione. Il fenomeno è cresciuto al punto che a fine 2017 questi soggetti non bancari, soprattutto fondi di private equity ma anche fondi di private debt specializzati, contavano a livello globale mezzo trilione di dollari di prestiti a medie aziende (erano 300 milioni nel 2012), stando alle stime del fondo Ares Management.

Prequin rileva invece che lo scorso anno il direct lending nel mondo ha registrato una raccolta pari a 54,4 miliardi di dollari mentre nel primo trimestre del 2017 il volume dei prestiti commerciali da istituzioni non bancarie, stando alla Federal Reserve, è cresciuto del 7,5% rispetto allo stesso periodo del 2016 (quelli bancari del 3,6%).

In Italia il comparto cresce ma meno velocemente rispetto ai paesi anglosassoni. Tra il 2014 e il 2017, stando al report di Aifi e Deloitte, sono stati raccolti 1,7 miliardi di euro, dei quali 292 nel 2017. Gli operatori attivi – sia equity che debito – sono stati 24, di cui otto internazionali, fra i quali Tenax Capital e Tikehau Capital, Pricoa Capital, del gruppo Prudential, e Pemberton. Fra gli italiani ci sono ad esempio quelli di Quadrivio sgr (oggi Green Arrow Capital), Dea Capital Private Debt di Dea Capital Alternative Funds sgr o Anthilia Capital Partners. Quanto alle operazioni, evidenziano sempre Aifi e Deloitte, tra gennaio 2013 e luglio 2017 sono stati 14 i deal chiusi da nove fondi di private debt per un ammontare complessivo di 640 milioni. Tuttavia si tratta prevalentemente di sottoscrizioni di bond e minibond. I prestiti diretti sono infatti scarseggiati per via soprattutto di alcune lacune e ristrettezze dal punto di vista regolamentare, che di fatto hanno fatto da deterrente. Fra i casi più rilevanti c’è ad esempio caso quello di Antares Az che ha finanziato a White Bridge Investments per l’acquisizione di Nutkao, operazione nella quale  Banco Bpm ha svolto il ruolo di Arranger.

A giugno, poi il fondo Equita Private Debt Fund, guidato da Paolo Pendenza, ha infatti affiancato L Catterton e Ambienta nell’acquisizione di Pibiplast, annunciata nel giugno scorso (leggi la notizia su financecommunity.it), sottoscrivendo per intero un prestito obbligazionario subordinato di 10 milioni emesso dal veicolo d’investimento controllato dagli stessi fondi di private equity.

LUCA MANZONI BANCO BPM

Forme diverse

«Il contesto attuale ha fatto sì che soggetti evoluti e di grandi dimensioni come gli investitori stranieri abbiano trovato nel private debt una nuova asset class», spiegano Luca Manzoni, responsabile corporate, e Claudio Steafani, responsabile della finanza strutturata di Banco Bpm. L’obiettivo dei fondi è «cercare nuove forme di investimento diverso dall’equity e puntare su ritorni in grado di soddisfare le esigenze degli investitori». Nonché «offrire loro un prodotto in più», incoraggiati anche da un mercato, quello dell’m&a, in cui, sottolinea Stefani, «c’è una crescente richiesta di credito per via dei multipli che, negli ultimi due anni, sono aumentati significativamente, e che le banche non sempre riescono a soddisfare».

Ma che effetti può avere tutto questo sul lavoro delle banche? Spiega Manzoni: «L’attività di questi soggetti va inevitabilmente ad affiancare quella degli istituti di credito. Basti pensare agli Stati Uniti, ad esempio, dove la maggior parte delle operazioni di leveraged finance oggi è realizzata da fondi alternativi». Tuttavia, tralasciando il fatto che al momento almeno in Italia il fenomeno è ancora contenuto, gli esperti precisano che «le operazioni realizzate da questi soggetti sono diverse da quelle bancarie: a fronte di rendimenti più alti, i fondi di private debt accettano rischi più elevati e durate più lunghe, anche oltre i sette anni, con forma bullet (cioè che prevede il rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza)».  Inoltre la quantità di leva che il fondo è disposto a erogare è più elevata rispetto a una banca. A cambiare sono anche i soggetti finanziati, che per gli istituti di credito sono solitamente le società operative, mentre per i fondi possono essere anche le holding.

CLAUDIO STEFANI BPM

 

Quando c’è concorrenza

Altro elemento che fa ancora dormire sonni tranquilli alle banche è la specificità del mercato italiano. «Qui – aggiunge Manzoni – le operazioni vedono una maggiore presenza delle banche che svolgono il ruolo principale sul mercato; c’è spazio per player del private debt – quelli di dimensioni più contenute –  in operazioni più piccole, dai 5 ai massimi 10 milioni di debito». Ma questi player non riescono…

 

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