Altman: «La recessione? Ci sarà e sarà più pesante»
L’economia, si sa, è ciclica e le recessioni degli ultimi 20 anni, scatenate da fattori come le crisi degli anni ’90, i mutui subprime nel 2008 passando per la bolla dei dot com e la crisi russa dei primi Duemila, hanno dimostrato come a un determinato periodo di relativa stabilità si affianchi inevitabilmente una fase di crisi. Aspettarcene un’altra non è solo ragionevole ma è quanto ci suggeriscono alcuni segnali. Il punto però è che il tonfo che questa volta l’economia globale farà sarà decisamente più pesante. Il motivo? È la quantità sempre più alta di debito, soprattutto delle grandi aziende. A sottilinearlo, fra i primi, è stato Edward Altman (nella foto), rinomato professore della NYU Stern School of Business e ideatore del Z-Score, il primo modello di valutazione standardizzata del merito creditizio aziendale, in un incontro nella sede milanese dello studio Orrick per presentare il nuovo modello Italian Scoring Platform.
Per capire bene come la prossima crisi potrà essere forse più aspra di quelle vissute negli ultimi decenni occorre fare un passo indietro e osservare la situazione attuale. «Considerando elementi come la crescita del Pil o il livello di distressed finanziario oggi possiamo dire che dagli ultimi otto anni l’economia globale stia vivendo un ciclo benigno», ha detto Altman, che ha aggiunto che «ci sono molte delle risorse finanziarie a disposizione delle aziende, grandi o piccole, in un contesto di bassi tassi di default rispetto al passato e di bassi tassi d’interesse».
Per valutare la bontà di un ciclo di credito vengono presi in considerazione elementi come il tasso di default dei crediti, dai crediti deteriorati fino ai bond, il tasso di recupero, i ritorni – quindi il livello di rischio che gli investitori sono disposti a prendersi – e infine la liquidità presente sul mercato.
Occhio al default rate
Questi elementi possono farci capire se una recessione è vicina? Per Altman e per altri economisti la risposta è sì ed ecco perché. Considerando il primo punto, cioè il tasso di default dei bond, negli Stati Uniti viene stimata una media del 3,4% per anno che è «una sorta di benchmark che ci permette di identificare a che punto storico siamo». I dati degli ultimi 30 anni mostrano come questo valore sia aumentato significativamente due o tre anni prima di una crisi. Il primo grafico mostra tre picchi: uno nel 1990, poi nel periodo 2001-2002 e infine nel 2009. «Tutti e tre si sono accavallati con un periodo di recessione», ha spiegato.
La relazione è più evidente nel secondo grafico, dove le bande verdi rappresentano i periodi di recessione e le linee i default. «La fine di una recessione è stata seguita da tassi di default superiori o vicini al 10% – ha spiegato – il che non è una sorpresa, dopo una recessione si hanno più fallimenti». Tuttavia occorre osservare il comportamento del tasso di default prima della crisi: questo ha cominciato a salire in diversi periodi due o tre anni o un anno prima della recessione. Oggi in Italia è il default rate dei prestiti corporate è all’1%, negli Usa il 2% con previsione per il prossimo anno al 2,3% .«Ora i valori sono ancora relativamente bassi e si prevede che restino tali anche nel 2019 ma osservarne l’andamento può aiutare a prevedere una recessione».
In mezzo ai picchi dei tassi di default si hanno periodi positivi lunghi dai quattro ai sette anni. «Oggi stiamo raggiungendo il nono anno, il più lungo periodo di sempre e sorprendentemente resiliente alle tensioni globali». Siamo anche in un periodo in cui i tassi di recupero – che sono sempre inversamente proporzionali al default rate – sono molto alti: 55% bonds e 70% per i prestiti.
La quiete prima della tempesta, si potrebbe dire. La calma piatta dei fallimenti e l’indebitamento sembrano essere gli ingredienti necessari per una recessione, uniti alla liquidità del mercato intesa come la misura di «quando i soldi siano facili da ottenere». Questo parametro viene valutato considerando quella nuova finanza classificata Tripla C, cioè di qualità più bassa. Oggi questo tipo di crediti rappresenta ora il 23% di tutti gli high yield bonds, su una media del 15%. «L’unico momento in cui il valore è stato così alto è stato il 2007», ha sottolineato il docente.
Il tema del debito
Il convitato di pietra in questo banchetto è il debito. Considerando il rapporto sul Pil, il debito delle società non finanziarie statunitensi sottoforma di bond high yield – il parametro di riferimento per Altman – si attesta a oltre il 14%, un picco pari a quelli visti nel 2008-09, nel 2001 e nel 1990. «A ogni picco segue un aumento del tasso di default» che a sua volta, abbiamo visto, è la sentinella dell’inizio di una recessione.
Per dirla in cifre, negli Stati Uniti a metà 2018 i bond high yield ammontava a quasi 1,7 trilioni di dollari (da 1,1 del 2008) e a 480 miliardi di euro nell’Europa occidentale. «Il volume dei bond high yield è cresciuto rapidamente negli ultimi anni raggiungendo un livello e un’importanza molto più ampi del passato», ha osservato. La ragione è che oggi realtà industriali di tutte le dimensioni stanno cercando forme di finanziamento alternativo alle banche. Il che ha portato il mercato globale dei bond ad alto rischio a molto oltre i 3 trilioni di dollari. A questi «va aggiunto un altro trilione relativo al mercato del leveraged loans, molto più alto di dieci anni fa»…