Vince la Brexit, ecco cosa potrebbe accadere alla finanza europea
I cittadini britannici hanno deciso: con il 52% dei voti al referendum, il Regno Unito lascia l’Unione Europea e sceglie la strada dell’indipendenza.
Ma cosa succederà ora a livello finanziario? Se si guarda alla reazione dei mercati, il futuro sembra promettere molto male. Piazza Affari resta la Borsa europea che più ha faticato ad aprire a pieno regime la seduta, con l’indice Ftse Mib che è sceso di oltre l’8%, mentre la sterlina è tornata ai valori di 31 anni fa, a 1,3 dollari, e nel FTSE100 100 miliardi di sterline sono spariti nella notte con un colpo di spugna.
L’unica certezza, ora, è che al voto seguirà inevitabilemte un periodo di incertezza sotto tutti i punti di vista, sia quello politico e sociale (il premier inglese David Cameron ha già rassegnato le dimissioni) sia fianziario. A questo proposito le banche centrali, nei giorni scorsi, hanno già annunciato di avere pronta liquidità per calmare i mercati, fra le quali la Bank of England che questa mattina ha deciso di mettere a disposizione del mercato 250 miliardi di sterline. Ma non è detto che questi sforzi basteranno, poiché il percorso che sancirà il divorzio tra Londra e Bruxelles è travagliato e richiederà almeno due anni di negoziati che alimenteranno solo le incertezze. Il terrore è che Brexit possa essere la nuova Lehman Brothers.
Guardando nello specifico di alcuni possibili scenari, sul fronte imprenditoriale, le imprese potrebbero essere penalizzate da eventuali nuovi dazi e certificazioni obbligatorie e potrebbe anche cadere la tutela del brevetto europeo. Di conseguenza servirebbero nuovi accordi bilaterali per le imposte indirette come Iva e dazi, sul modello della Svizzera. Per Sace questo potrebbe significare un crollo dell’export italiano in Uk, dal 6-7% del 2016 al -3 o -7 nel 2017.
Da un punto di vista finanziario, invece, nel lungo termine la relazione tra Regno Unito e resto del mondo cambierà profondamente: da un lato le banche inglesi potranno avere maggiore autonomia, ma dall’altro cadrà, fra gli altri, il principio del “passporting”, che consente alle banche di accedere al mercato unico europeo senza restrizioni, con conseguenze imprevedibili, fra le quali perdita di posti di lavoro negli stessi istituti (4 mila secondo Jp Morgan), in favore di altre filiali nell’Europa continentale.
Per il Financial Times, l’aspetto più a rischio è quello che riguarda il foreign exchange trading, ambito in cui la City domina ancora prima dalla nascita dell’Ue e che potrebbe rivelarsi il più vulnerabile in quanto la Borsa di Londra smetterebbe di essere la piazza principale dove fare transazioni in euro.
Questo ci porta alla terza questione, che è quella che riguarda l’assenza, in Europa, di una piazza finanziaria forte. Per molti analisti l’unica alternativa potrebbe essere Francoforte, anche se è piccola e per molti provinciale, o la frammentazione. In questo caso le banche straniere con grandi operazioni a Londra potrebbero suddividere il proprio staff nelle varie città dove hanno già operazioni, come Dublino, Parigi, Varsavia e Lisbona, ma questo potrebbe provocare una frammentazione dei servizi finanziari europei con una potenziale riduzione della capacità del continente di competere a livello internazionale.
Il commento di Stefano Caselli, ordinario di Economia degli intermediari finanziari alla Bocconi:
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