Fintech, il futuro vale già 3.800 miliardi

Immaginiamo di poter avviare un piano di risparmio e investire su un fondo da noi scelto attraverso pochi clic sul nostro smartphone mentre stiamo andando a lavoro in metro. Oppure pensiamo che con lo stesso smartphone possiamo firmare un contratto, prestare una certa somma di denaro, anche piccola, a un’azienda situata dall’altra parte del Paese, pagare con la carta di credito tramite un codice Qr o gestire in tempo reale il nostro portafoglio d’investimento. Immaginiamo di poter fare tutto questo proprio oggi, in Italia, dove, seppur in ritardo rispetto al resto del mondo, la finanza tradizionale sembra aver iniziato a capire che non può più prescindere dalla tecnologia.

Tutte le azioni descritte si possono compiere grazie ad app già esistenti o startup italiane attive sul mercato, realtà del cosiddetto fintech che, nonostante il sistema sia ancora restio agli stravolgimenti, stanno tentando di dare un approccio innovativo al modo di vivere e offrire i servizi finanziari. «Stiamo assistendo a un’accelerazione da parte della tecnologia e del fintech nel sistema italiano», afferma Roberto Ferrari (nella foto), direttore generale di Che Banca!. Il potenziale è molto alto e per capirlo basta guardare le cifre a livello globale: nel 2015 sono stati investiti 22,3 miliardi di dollari nel fintech, è circa il doppio degli investimenti dell’anno precedente, di cui 1,8 miliardi di euro solo in Europa.

I ritorni, a livello globale, sono stimati pari a 3.800 miliardi (4,7 trilioni di sterline secondo le stime di Goldman Sachs). Cifre che dimostrano come questo mondo sia in «enorme crescita» e «attraente in termini di investimenti e ritorni», aggiunge.

Tante sfaccettature
Si tratta però di un ecosistema variegato che tocca tutti gli aspetti della vita finanziaria, dall’asset management, ad esempio con la app per investire lanciata da AcomeA sgr (si veda l’articolo successivo) al lending, all’e-commerce fino alla sicurezza dei dati personali e ai pagamenti. Così come molteplici sono i soggetti coinvolti, dalle banche tradizionali alle startup fino agli investitori istituzionali.

Pensiamo ad esempio al bitcoin, la moneta virtuale più famosa. Nel 2015 le transazioni con questo conio digitale, che avvengono attraverso una sorta di rete fatta di tanti nodi ciascuno legato all’altro che controllano la bontà delle transazioni (chiamata blockchain), quindi senza alcuna intermediazione, sono arrivate a toccare il miliardo di dollari e oggi un bitcoin vale oltre 400 dollari. La finanza “tradizionale” ha fiutato l’affare e molte banche hanno iniziato a investire nel settore. Alla fine del 2015, ad esempio, un gruppo di 25 istituzioni finanziarie di tutto il mondo fra le quali Ubs, Goldman Sachs e JpMorgan, compresa l’italiana UniCredit, ha investito in R3 Cev, una delle 300 startup che stanno sviluppando prodotti per l’industria dei servizi finanziari partendo dalla blockchain. In tutto, nei primi nove mesi del 2015, queste startup hanno ricevuto investimenti per 462 milioni di dollari, il doppio del 2014.

L’equity crowdfunding, invece, consente a chiunque di finanziare un progetto, attraverso piattaforme specifiche, anche con piccole quote. L’Italia è stata fra i primi Paesi a regolamentare questo nuovo marketplace dando anche alle cosiddette pmi innovative la possibilità di accedere a questi capitali. Stando però agli ultimi dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, in Italia si sono raccolti 2,45 milioni di euro, da offerte pubblicate nel complesso da 9 portali, su un totale di 17 iscritti nei registri Consob. Cifre ancora piccole se si pensa che nel Regno Unito un solo portale (Crowdcube) ha raccolto oltre 100 milioni di euro. Poi ci sono i robo-advisor…

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