Finanza per la crescita, cinque proposte per svilupparla
a cura di Zephir Capital Partners
A giugno 2014, il governo allora in carica si impegnò a liberalizzare i canali di finanziamento alle imprese indicando l’obiettivo di raccogliere 20 miliardi aggiuntivi rispetto a quelli forniti dalle banche [1]. L’obiettivo si allineava a un trend internazionale di diversificazione delle fonti di credito in aggiunta a quanto storicamente fornito dal sistema bancario e da altre tipologie di credito alle imprese.

In Italia, nell’ultimo triennio, le banche hanno ridotto di oltre 60 miliardi di euro il credito alle imprese (si veda tabella qui sotto) nonostante abbiano ricevuto oltre 255 miliardi da parte della BCE e abbiano investito oltre 394 miliardi in titoli pubblici italiani (cioè quasi la metà del credito totale concesso alle imprese domestiche).
Non è solo un problema di domanda o del marcato ridimensionamento del numero di imprese italiane attive dopo la crisi. Una recente ricerca EIB[2] ha evidenziato come un’impresa italiana su dieci abbia difficoltà a ottenere i finanziamenti richiesti, cifra che è doppia rispetto alla media europea. La situazione è solo destinata a peggiorare in futuro a seguito della completa applicazione delle regole di Basilea III e dell’ineluttabile ulteriore consolidamento nel sistema bancario italiano[3].
Ad oggi i fondi di credito italiani hanno raccolto 1,7 miliardi (contro gli oltre 60 miliardi raccolti in Europa nello stesso periodo) mentre i cosiddetti minibonds hanno raccolto anch’essi circa 1,6 miliardi. Siamo quindi significativamente distanti dai 20 miliardi di credito aggiuntivo che era l’obiettivo del Governo nel 2014.
Quale è la ragione di tale mancato sviluppo e quali potrebbero essere le proposte di politica industriale (peraltro praticamente a costo zero per il bilancio statale)? Ecco cinque proposte:
- Dal punto di vista normativo è stato fatto molto nel corso degli ultimi anni. Bisognerebbe tuttavia superare la distorsione fiscale introdotta dall’art.18 della scorsa legge di stabilità, che privilegia gli investimenti in fondi di private equity rispetto quelli di private debt da parte delle Casse Previdenziali e dei Fondi Pensione. D’altra parte, la ratio della diversificazione in questa come in altre asset class alternative dovrebbe derivare principalmente dalla necessità di ottenere un rendimento adeguato, non dagli incentivi fiscali. Per i fondi pensione, ad esempio, l’esperienza recente è stata di successo perché “aiutata dai rendimenti di mercato in una logica sostanzialmente inerziale”. D’altra parte Prometeia stima che i ritorni attesi per i fondi pensione italiani per prossimi cinque anni, data l’attuale composizione dei loro portafogli, sarà di – 0,8% annuo (contro un + 1,2% negli scorsi 10 anni)[4].
- In aggiunta, in Italia mancano investitori che fungano da “cornerstone investors”, con questo validando la qualità delle iniziative domestiche, investendo importi che permettano di raggiungere un equilibrio economico autonomo ed attrarre altri investitori rilevanti (per intenderci, importi da €50/75 milioni in su)[5]. Molti investitori istituzionali italiani (e, fra questi, importanti assicurazioni) stanno invece investendo in fondi di credito esteri, ance perché questi ultimi permettono di effettuare committments significativi con – sostanzialmente – lo stesso sforzo di due diligence (anche se non è sempre scontato che “established players” con svariati miliardi in gestione garantiscano necessariamente i rendimenti migliori).
L’Italia è, sempre più, un esportatore netto di capitali finanziari; questo è particolarmente pernicioso quando si tratta di investimenti in fondi alternativi che investono direttamente nell’economia reale dei paesi nostri concorrenti, senza che esista un adeguata reciprocità (vedasi barretta in blu chiaro nella tabella qui sotto rappresentativa degli investimenti italiani in titoli esteri, oltre 200 miliardi cumulati ed in costante crescita).
- Sarebbe inoltre auspicabile che venissero finalmente promossi uno (o più) fondi di fondi per permettere ai fondi pensione negoziali e alle casse previdenziali minori di poter accedere agli investimenti alternativi. L’apporto dei fondi pensione negoziali all’economia reale italiana è stato fino ad oggi assolutamente marginale[6] e si sente la tendenza, anche di questi, all’investimento all’estero sotto il motto “siamo già molto esposti all’economia italiana…”
- Le finanziarie regionali dispongono oggi di circa 9 miliardi di liquidità che hanno forti difficoltà a investire (peraltro gli investimenti di queste sono senza vincolo di rendimento). Si potrebbe studiare come canalizzare una parte di queste risorse presso gestori privati di fondi alternativi (Fondi di credito, Private Equity, Venture Capital) affinché vengano investite nell’economia reale, peraltro a rendimenti di mercato[7].
- Gli stessi PIR hanno ad oggi investito quasi esclusivamente in strumenti liquidi, soprattutto in azioni di aziende quotate all’AIM, e non in fondi alternativi che investono nelle PMI italiane (siano essi di equity, debito o venture capital).
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[1] Misure per la competitività – conferenza stampa congiunta Federica Guidi e Pier Carlo Padoan 18 Giugno 2014.
[2] European Investment Bank Group: Survey on investment and investment finance 2016 country overview – Italy.
[3] Vedasi anche Nota dal Centro Studi Confindustria Aprile 2017: “In Italia risalita dell’economia senza credito, durerà?”
[4] Intervento di Davide Squarzoni, DG di Prometeia, alla giornata di studio “gli inestimenti dei fondi pensione nell’economia reale (Roma, 23 Giugno 2017).
[5] All’estero molte nuove iniziative sono decollate in questo modo: Tikehau grazie al supporto di Credit Mutuel e Credit Agricole Assurance, Pemberton grazie a Legal & General, Alcentra grazie a Bank of NY Mellon, Babson Capital grazie a Mass Mutual.
[6] Itinerari Previdenziali, Settembre 2017, scrive nel suo report annuale: “Lo stock di TFR generato dal sistema produttivo italiano dal 2007 a oggi è pari a 50 miliardi confluito nella previdenza complementare; 56 miliardi nel Fondo di Tesoreria gestito da Inps mentre i restanti 136 miliardi restano accantonati presso le aziende. Purtroppo, di questi 106 miliardi, solo 2,5 miliardi ritornano al sistema produttivo, cioè vengono reinvestiti in economia reale. In pratica, il sistema complementare reinveste TFR pari allo 0,15% del PIL, contro il 6,4% del PIL prelevato nel periodo; ma dove vanno i nostri quattrini? In prevalenza finanziamo aziende e istituzioni straniere con oltre 6,25% punti di PIL complessivi, con un doppio danno per il Paese: da un lato rendiamo meno competitive le nostre aziende, e dall’altro lato diamo i mezzi finanziari ad imprese estere per fare shopping di nostre eccellenze.
[7] Tale proposta era stata lanciata dall’ex Presidente dell’Associazione Finanziarie Regionali (ANFIR).