Aifi, +39% gli investimenti stranieri in Italia nel 2014
La ripresa economica corre sulla strada del private equity e del venture capital, in particolare grazie agli operatori internazionali che nel 2014 hanno investito in italia il 39% in più rispetto al 2013, in totale circa 1,9 miliardi (rispetto ai 1,37 dell’anno precedente).
È quanto emerge dalla ricerca condotta dall’AIFI, Associazione italiana del private equity e venture capital, in collaborazione con PwC – Transaction Services, e presentata oggi in occasione del convegno annuale dell’ente. Nel complesso, evidenzia la ricerca, lo scorso anno gli investimenti sono stati 3,5 miliardi di euro per 311 operazioni, di cui 106 in seed e startup. L’ammontare è stabile rispetto all’anno precedente mentre la raccolta indipendente è cresciuta del 116%, a 1,35 miliardi rispetto ai 623 milioni del 2013. Il dato – evidenzia la ricerca – è influenzato dalla forte raccolta del Fondo Strategico Italiano, che ha ricevuto grossi capitali dai fondi sovrani. Sulla raccolta, il peso dell’estero è pari al 45% del totale.
Uno spin importante, come emerso dal convegno, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Claudio De Vincenti, vice ministro del ministero dello Sviluppo economico, Giuseppe D’Agostino, vice direttore generale Consib, Mauro Marè, presidente Mefop, Alessandro Rivera, dirigente generale sistema bancario e fianziario – affari legali del Mef, Nino Tronchetti Provera, della commissione Mid Market EVCA e Gabriele Todesca, Fondo europeo d’investimento, è quello relativo agli investimenti in early stage, ovvero in società seed e start up. Esaurito il fondo HT per il Mezzogiorno (fondo di fondi a capitale pubblico promosso dal Governo), le operazioni in early stage hanno subito una battuta d’arresto: sono state infatti 106 le operazioni chiuse rispetto alle 158 del 2013. Anche l’ammontare è calato passando da 82 milioni del 2013 a 43 milioni di euro del 2014.
«Il mercato del venture capital è ancora giovane e deve essere aiutato; abbiamo visto come il fondo HT per il Mezzogiorno sia stato utile – afferma Anna Gervasoni, direttore generale AIFI – ma serve ora potenziare iniziative a carattere nazionale che facciano da volano alle risorse degli operatori, mettendo in moto le tante idee presenti nel nostro Paese che hanno bisogno di un sostegno finanziario per muovere i primi passi». Sono infatti oltre 3.500 le start up innovative iscritte al registro della Camera di commercio, per un capitale sociale di 153 milioni di euro. Un bacino di baby imprese che può fare da volano per la ripresa.
Per quanto riguarda gli investimenti, nel 2014 la ricerca sottolinea l’aumento del numero di operazioni di buyout che sono state 91 rispetto ai 50 del 2013. Stabile l’ammontare che rimane a 2,181 milioni di euro di equity (nel 2013 erano 2.151 milioni di euro) mentre cresce l’ammontare investito in expansion, che passa da 914 milioni a 1.179 milioni di euro con un +29%, capitale distribuito però in un numero inferiore di operazioni, da 138 a 101.
A livello di settore, il comparto IT guida il mercato, con 47 operazioni, seguito da servizi non finanziari con 33 e dal manifatturiero, con 26. Per importo è invece il lusso (680 milioni) la prima area di investimento. A oggi, secondo la ricerca Aifi, gli operatori di private equity e di venture capital hanno in portafoglio 1.245 aziende che impiegano complessivamente 480 mila addetti e generano un fatturato di 100 miliardi di euro. Inoltre le aziende in cui investono i fondi, ha detto il presidente Aifi, Innocenzo Cipolletta, «hanno un tasso di occupazione annuo che cresce del 5,5% rispetto alla variazione registrata in Italia nello stesso periodo del -0,4%».
Sul fronte disinvestimenti, nel 2014, l’ammontare disinvestito al costo di acquisto delle partecipazioni, è stato pari a 2.632 milioni di euro in crescita del 36% rispetto ai 1.933 dell’anno precedente. Il numero delle dismissioni è stato di 174 (+23%) rispetto alle 141 del 2013. In sostanza, il mercato italiano del private equity sta ripartendo «anche se resta sottodimensionato» e penalizzato da «normative piu’ severe» rispetto a quelle di altri Paesi, sottolinea Cipolletta. Quello che è più importante, ha aggiunto, «è che nel frattempo abbiamo visto anche una crescita delle uscite: in altre parole c’e’ più possibilità di collocare aziende che sono state risanate o che sono cresciute di dimensione. Questo significa che il private equity può ricominciare a lavorare bene».
I freni però restano e secondo Cipolletta sono soprattutto due: da un lato «c’è il punto di vista regolamentare, abbiamo regole che sono un poco più severe di quelle degli altri Paesi e questo riduce la nostra capacità. Dall’altro – aggiunge – c’è il problema di scongelamento di alcuni fondi, perché tutto il sistema previdenziale italiano investe pochissimo in questo settore mentre negli altri Paesi il sistema prevenzione èun investitore a lungo termine e ha proprio nel private equity e nel venture capital un importante punto di riferimento. Da noi tutto ciò non avviene».