Alessandra Gritti di Tip: «Privilegiare le donne? È uno sbaglio»

Le donne non sono come i panda, non hanno bisogno di essere protette. Anche se si trovano a lavorare nel mondo della finanza, che è notoriamente fra i meno aperti alla diversità di genere, e anche se ce n’è una ogni 50 colleghi in giacca e cravatta. Le donne, è convinta Alessandra Gritti (nella foto), vice presidente e amministratore delegato di Tamburi Investment Parnters, di cui è anche co-fondatrice, «hanno gli strumenti per poter crescere sulle loro gambe».

In questa intervista a Mag dice che in realtà «le donne nel mondo della finanza ci sono e sono anche molto brave, ma sono meno appariscenti» poiché «la maggior parte di loro non ha l’ambizione o il desiderio di farsi vedere», quanto piuttosto quello «di raggiungere risultati concreti». Gritti, è attiva nel campo della finanza aziendale dal 1983, con esperienze in Sopaf, in Mediocredito Lombardo e in Euromobiliare, dove ha guidato il settore M&A. È una donna che si è costruita da sola e che è andata avanti spinta dalla determinazione. Ed è per questo che, a suo avviso, «è sbagliato che le donne siano privilegiate. Non abbiamo bisogno che qualcuno ci spiani la strada per fare carriera». Anche perché questo privilegio potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio.

Se da un lato, infatti, garantisce la presenza di donne all’interno delle aziende, «dall’altro le mette in una condizione di essere sempre sotto i riflettori, di essere chiamate a dimostrare di essere all’altezza di quel ruolo in ogni situazione, con il rischio di essere spodestate da un momento all’altro». In pratica, «sei sempre sotto scacco».

Cosa pensa, allora, della legge sulle quote rosa, dottoressa Gritti?
La legge ha il merito di aver smosso le acque e di aver portato a galla il tema della diversità. In questo senso sta già dando i suoi frutti.

Però…
Però non ritengo giusto prendere una persona e, solo perché è donna, metterla in un consiglio di amministrazione. Viene inserita in un’azienda di cui non sa niente, in cui non ha mai lavorato, con responsabilità elevatissime e spesso le vengono affidati ruoli “scomodi” che nessuno vuole ricoprire. Perché una donna dovrebbe accettare tutto questo? Per apparire? Non credo che ne valga la pena.

Un ruolo in un cda è comunque una posizione di rilievo…
Certo, ma è la summa di un’esperienza, di un percorso professionale fatto all’interno di quella stessa azienda attraverso i quali l’uomo o la donna in questione hanno acquisito le competenze e le conoscenze necessarie per affrontare anche le situazioni più difficili.

Se la legge sulle quote rosa non è sufficiente, cosa andrebbe fatto?
L’ideale, secondo me, sarebbe che nelle aziende ci fosse una “quota rosa” fin dall’assunzione, ad esempio anche il 70% uomini e il 30% donne, e che venga mantenuta a ogni tornata di promozioni. In questo modo non solo nelle aziende avremmo un bilanciamento di genere a tutti i livelli, ma anche un aumento delle responsabilità in maniera graduale e quindi la possibilità di valorizzare le qualità delle donne come la diligenza, la determinazione e le capacità organizzative.

Il problema però è che spesso le donne si autocensurano…
È vero, le donne sono le prime a ritirarsi. Io le ho cercate, le cerco e le voglio tuttora ma è difficile anche solo farci un colloquio.

Perché secondo lei?
Perché si trovano davanti a una sorta di ricatto. Le donne studiano, fanno sacrifici, arrivano a 30 anni indaffarate e desiderose ma al primo marito o uomo che arriva sentono la pressione del compagno forte, dell’impegno familiare, e mollano. Ci sono almeno 5 mila laureate alla Bocconi che sono sparite negli ultimi anni. Dove vanno a finire?

Me lo dica lei…
A lavorare al desk in banca o nel mondo della comunicazione. Perché hanno la sensazione che siano professioni più gestibili, che si possa lavorare anche da casa.

Nel private equity questo però non è possibile…
Certo, se sei sul deal non puoi lavorare da casa.

E allora?
Allora bisogna crederci. Intraprendere questo percorso è possibile,

 

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