Alternative data, ecco come possono essere utilizzati in finanza
Il mondo digitale, come si sa, sta mettendo a disposizione una mole di dati sempre più estesa, basti pensare che il 90% dei dati oggi in circolazione è stato creato negli ultimi due anni. Tra questi crescono di importanza gli alternative data, cioè quelle informazioni ricavabili da fonti web non convenzionali, come su social, blog, forum, mappe e piattaforme di e-commerce; un’importanza che cresce, di fatto, anche grazie all’interesse dimostrato per questi dagli operatori della finanza.
Si rende però necessaria la presenza di soggetti in grado di raccogliere, processare, organizzare e gestire questi dati, per fornire all’asset management, al wealth manager e alle investor relations delle società quotate, le informazioni già utilizzabili a partire da dati non strutturati. Tra questi soggetti troviamo Datrix, una pmi innovativa italiana fondata da ex top manager di Google.
“Raccogliamo e analizziamo oltre 500mila nuovi contenuti digitali al giorno e li mettiamo in relazione a società quotate, indici, settori e temi di investimento” ha spiegato il ceo e fondatore del gruppo Datrix Fabrizio Milano d’Aragona (nella foto a destra). Nel 2017 la società ha dato vita a FinScience, dedicata all’investment intelligence sugli alternative data attraverso tecnologie proprietarie di intelligenza artificiale. “L’attività di FinScience – continua d’Aragona – consiste fondamentalmente nel pesare le informazioni prima che diventino notizie finanziarie. Nello specifico selezioniamo segnali forti ed emergenti collegandoli ad attività finanziarie sia in riferimento a singole aziende che a tematiche specifiche, costruiamo indici alternativi di investimento in ottica smart beta ridefinendo schemi di classificazione tradizionale, sviluppiamo modelli di risk management e strategie di investimento utilizzando in combinazione dati tradizionali e alternativi”.
Ecco alcuni esempi concreti dell’attività, raccontati a Financecommunity.it. “Col titolo Tesla siamo riusciti a capire piuttosto in anticipo quali erano i rischi con potenziale rilevanza finanziaria collegati ad alcune problematiche della loro tecnologia e in particolare al caricamento del litio ad alta velocità, un tema inizialmente discusso solo in ambito scientifico ma che è diventato un argomento finanziario nel momento in cui questa informazione man mano si è diffusa, arrivando a condizionare l’andamento del titolo”.
Un’altra applicazione riguarda la gestione del credito alle pmi e in particolare l’affinamento dello scoring per l’individuazione del rischio default. “Abbiamo presentato nell’ambito dell’Osservatorio big data del Politecnico di Milano il lavoro in tre fasi fatto per una società di business e credit information. Inizialmente abbiamo applicato i nostri algoritmi di machine learning ai dati finanziari tradizionali storici provenienti dalle Camere di commercio e le variabili considerate sono passate subito da 15 a 1.400, scoprendo relazioni rilevanti che anche un professionista del credito più esperto da solo non avrebbe potuto individuare. Abbiamo poi usato gli alternative data per realizzare una carta di identità digitale aggiornata in tempo reale delle aziende e del management basata su tipologia e caratteristiche di presenza web, ranking sui motori di ricerca, social reputation, customer reviews, aggiornamento tecnologico, aggiornamento contenuti. Le variabili tradizionali e alternative sono state quindi unite, registrando un miglioramento di 13 punti percentuali di affidabilità del modello, dall’80% al 93%. Su un sottoinsieme analizzato di 135mila aziende, è stato possibile individuare 700 bad company aggiuntive a rischio default, al cui finanziamento invece lo scoring tradizionale non evidenziava allarmi, e 17.000 nuove good company”.
“Spesso – spiega ancora il ceo – ci viene richiesta dai nostri clienti l’analisi di portafogli esistenti per capire se ci sono informazioni aggiuntive che possono motivare la permanenza o l’uscita dalle posizioni”.
Un caso recente che ha avuto ampia risonanza nel mondo finanziario è quello di Google, che a fine aprile ha perso più dell’8% bruciando 70 miliardi di dollari di capitalizzazione, sulla base della mancata generazione di fatturato da alcuni investimenti, in particolare nel cloud, dove si posiziona terza dopo Amazon e Microsoft. “Dagli alternative data, e in particolare da alcuni blog americani, – racconta d’Aragona – si poteva intercettare uno dei fattori di rischio: Google ha il 50% dei dipendenti che lavora sul cloud e impiega quindi in questa area una quantità di risorse molto importante in un settore in cui il gruppo non è leader di mercato. Il 95% del fatturato della company continua infatti a derivare da altre attività”.
Spostandosi di qualche anno indietro nel tempo, un altro caso citato dal ceo di Datrix riguarda il caso “Dieselgate”. “Quando c’è stato il primo scandalo, legato a Volkswagen, abbiamo analizzato come i consumatori percepivano quel problema. Quello che emerse è che, mentre nel mercato americano la percezione negativa del consumatore corrispondeva alla percezione negativa finanziaria, nei principali mercati europei (Italia, Francia, Germania e Spagna), non c’era questo tipo di corrispondenza, anzi di fatto i consumatori dichiaravano che grazie allo scandalo avrebbero potuto ottenere degli sconti in concessionaria per acquistare l’auto. Questo fa capire come in realtà un momento temporaneo di difficoltà a livello finanziario potrebbe essere ribaltato a medio termine analizzando intelligentemente e automaticamente le intenzioni di spesa dei consumatori finali. Così è accaduto a Volkswagen che proprio in quel periodo è diventato il primo produttore di auto al mondo, superando Toyota“. In definitiva, sottolinea e conclude D’Aragona, “gli alternative data stanno diventando il necessario complemento ai dati tradizionali e il fattore differenziante per chi li utilizza”.