Apax, Cipparrone: «L’Italia? Un mercato core»

La frenata dell’economia a livello globale, il rischio recessione tecnica e le incertezze a livello politico possono essere dei validi deterrenti per i private equity interessati a investire in Italia. In passato, lo sappiamo bene, è stato così: pensiamo solo alla fuga dei player globali del 2013. E molti sono pronti a scommettere che anche quest’anno lo scenario potrebbe ripetersi.

Ci sono, però, big del settore che non hanno nessuna intenzione di andarsene e anzi puntano a sfruttare il momento di ribasso del mercato, scovando le nicchie e investendo in settori ben precisi.

Uno di questi è Apax Partners. Il colosso britannico – che non va confuso con il fondo francese, Apax France, presente anche a Milano e attivo soprattutto sul mid cap – lo scorso anno ha visto un ricambio nelle prime linee: l’ex partner responsabile per l’Italia, Giancarlo Aliberti, ha lasciato il suo ruolo, restando come consulente, e ha passato il testimone a Gabriele Cipparrone (nella foto), in Apax dal 2003, che in questa intervista a MAG racconta i piani del big del private equity nel nostro Paese.

«La strategia per ciò che riguarda l’Italia è in linea con quella del passato. Investiamo qui dal 2000, con un focus su società dai 400-500 milioni di euro di valore e attive in settori molto precisi. In quasi 20 anni siamo stati uno dei player più attivi sul territorio, l’idea è di continuare su questa linea», spiega Cipparrone.

Nel complesso, il gruppo ha investito 2 miliardi di euro in sette società italiane registrando ritorni per 4 miliardi. Specializzazione e cherry picking sono le carte che Apax mette sul tavolo. A oggi, due sono quelle italiane o attive in Italia attualmente in portafoglio e cioè Engineering, realtà da 1,2 miliardi di euro di fatturato e 10mila dipendenti acquisita nel 2016, e Idealista, portale di annunci che opera in Spagna e in Italia. Entrambe le società sono parte del Fondo VIII, che dal lancio nel 2012 ha raccolto 7,5 miliardi di dollari, oggi totalmente investiti. Le altre sono state cedute. Fra queste c’è stata Sisal, venduta nel 2016 al fondo Cvc per 1 miliardo di euro, poi Rhiag, ceduta al gruppo Usa Lkq per un enterprise value superiore al miliardo e Banca Farmafactoring, che nel 2015 è stata ceduta a Centerbridge e poi, nel 2017, quotata a Piazza Affari. Il gruppo in passato ha anche investito in società come Wind e Azimut. E per il 2019 ha già in pipeline due o tre operazioni.

 

Dottor Cipparrone, cosa rappresenta l’Italia per un gruppo globale come Apax?

L’Italia è sempre stato uno dei mercati core per Apax Partners in Europa, assieme a Regno Unito, Germania e Spagna, e continuerà a esserlo. Dopo tutti questi anni abbiamo raggiunto un ottimo livello di familiarità con le peculiarità del mercato italiano che ci permette di investire anche nei momenti più bui per l’economia del Paese. Per questo motivo gli alti e bassi del mercato, legati anche alla situazione politica, non ci spaventano.

 

Quali sono queste peculiarità che ha riscontrato?

È un mercato con un livello di ciclicità molto elevato e più “locale” rispetto ad altri. Nel Nord Europa, per fare un esempio, per fare business non è necessario avere competenze locali forti perché il mercato è più standardizzato a livello  internazionale. Ciò non è possibile in Italia dove invece serve avere dei professionisti del posto che conoscono da vicino le dinamiche di mercato e le imprese.

 

Quanti sono i professionisti italiani nel vostro team?

Siamo sette, di cui due partner.

 

Come policy seguite solo aziende large size. In Italia quali sono i vostri target?

Guardiamo a imprese che vanno dai 400 – 500 milioni in su come enterprise value.

 

È una dimensione importante per un mercato prevalentemente medio-piccolo come quello italiano…

In effetti questa scelta può rappresentare un limite ma è determinata dall’ampiezza dei nostri fondi, come l’ultimo, il Fondo IX, da 9 miliardi di dollari. Tuttavia per quanto non tantissime in termini numerici, di aziende grandi o in crescita, in Italia, ce ne sono e noi ne abbiamo sempre trovate.

 

Come avviene la scelta delle target?

Le aziende di nostro interesse devono innanzitutto lavorare nei quattro settori che consideriamo, cioè tecnologia, consumer, healthcare e servizi. La deal generation avviene su società attive in questi comparti: la lista non è lunghissima attraverso la nostra esperienza ventennale e la forte specializzazione abbiamo chiaro il quadro della situazione imprenditoriale. Sappiamo quali sono i player principali, siamo in contatto con gli imprenditori e abbiamo le idee ben precise su quali sono le imprese in crescita, da monitorare fino a quando non avranno raggiunto una size soddisfacente. A volte le operazioni avvengono anche con società che fanno parte di un gruppo più grande o di altri fondi di investimento dove ci sono particolari esigenze di vendita.

 

Per il 2019 che prospettive ci sono?

Abbiamo una pipeline buona, stiamo valutando in modo serio e approfondito due o tre operazioni.

 

A livello di mercato invece?

Abbiamo notato un calo nelle valutazioni nell’ultima metà dell’anno in vista della manovra finanziaria. Ciò rappresenta un’opportunità interessante.

 

Per un abbassamento dei prezzi?

In realtà, mentre per le società quotate in Borsa c’è già stato un calo dei prezzi, e per noi che guardiamo anche a operazioni public to private è sicuramente un aspetto importante, nel privato questo si è sentito meno. Il mercato non quotato ci mette del tempo ad allinearsi e in generale non mi sorprenderebbe vedere in Italia il ritorno a una situazione come quella di quattro o cinque anni fa, con gli investitori che si stanno allontanando dal Paese.

 

Sicuramente quest’anno non sarà come l’anno scorso…

Rispetto alla prima metà del 2018 oggi il mercato è sicuramente più difficile in termini di valutazioni, ma anche di disponibilità di debito e di costo del finanziamento. Questo crea una situazione che è potenzialmente interessante per quei player che sanno vedere il ciclo restando attenti al valore delle aziende. Le faccio un esempio.

 

Prego…

Abbiamo acquisito Rhiag nel 2013, un anno che ricordiamo è stato molto difficile per l’Italia, con una valutazione inferiore del 30% rispetto ad aziende dello stesso settore nel mercato statunitense e alla fine l’abbiamo venduta con ottimi ritorni. Quest’anno probabilmente il contesto del mercato sarà simile e se considerato nel lungo periodo ciò può essere un’opportunità.

 

Con quale fondo siete operativi oggi?

Con il Fondo IX del 2016 che ha una capacità di 9 miliardi. Contestualmente abbiamo realizzato un altro fondo da 1 miliardo di dollari, dedicato a società tecnologiche, con il quale possiamo fare anche deal più piccoli, anche di development capital, con l’obiettivo di puntare su aziende innovative anche di dimensione inferiore che abbiano ottime prospettive di crescita.

 

Voi siete in Italia da vent’anni, come è cambiato il mercato in questo tempo?…

PER CONTINUARE LA LETTURA SCARICA GRATIS L’ULTIMO NUMERO DI MAG

SHARE