L’ascesa del private debt in Italia
di letizia ceriani
Continua a correre il mercato italiano del private debt. Numeri alla mano, i primi mesi del 2025 hanno vissuto di rendita di un’annata, il 2024, definita dagli operatori del settore «da record». Stando ai dati diffusi da Aifi in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), infatti, lo scorso anno la raccolta ha registrato una crescita del 13% rispetto al 2023, attestandosi a 1.360 milioni di euro, mentre l’ammontare investito ha sfiorato quota 5 miliardi, il massimo di sempre. In un panorama in cui le operazioni di M&A vivono un drastico calo, sia a livello mondiale che a livello nazionale. Per contro, il private equity, solo nei primi cinque mesi del 2025, ha visto chiudersi, su suolo nazionale, ben 189 deal (quanto nello stesso periodo dell’anno precedente erano state 158). Sulla scia di un anno che ha raggiunto, in termini di investimenti, quota 20 miliardi, in private equity, infrastrutture, venture capital e private debt, testimoniando il cambio deciso del capitale privato, settore che nel 2015 aveva raccolto solo 5 miliardi. Come si è costruito il successo del debito privato negli anni?
Le banche, le imprese e l’accesso al credito
«L’Italia è un Paese tradizionalmente bancocentrico che ha da sempre individuato come fonte alternativa delle risorse per lo sviluppo delle aziende, da un lato, gli azionisti e, dall’altro, il capitale di debito, una volta fornito principalmente dalle banche. – spiega a MAG Alessandro Fosco Fagotto, partner dello studio legale Dentons e alla guida della practice di Banking and Finance in Europa e in Italia -. Con l’inasprimento delle normative europee di Basilea III e IV, sono progressivamente cambiate le modalità di concessione del credito e i fondi di debito, a partire dal 2011, hanno progressivamente affiancato gli istituti finanziari, aumentando la loro potenza di fuoco». Irrigidendosi i requisiti patrimoniali, si sono imposti vincoli più stringenti all’erogazione del credito che hanno compresso i canali tradizionali, aprendo la strada agli operatori privati, che si sono impegnati a colmare il divario tra offerta e domanda di capitale.
Il quadro normativo italiano si è progressivamente adattato alle esigenze del settore e sono stati introdotti strumenti che hanno favorito anche gli operatori non bancari, permettendo soprattutto alle imprese del mid-market di accedervi. «È andato sempre più diminuendo l’appetito della banche per le operazioni a leva più alta e a maggiore rischio, tanto da arrivare a coprire oggi il 30% in meno rispetto a un decennio fa», continua Fagotto.
Anche le imprese nostrane, dunque, iniziano a preferire le soluzioni di capitale più flessibili. Nel mentre, l’intervento delle banche, nel contesto delle operazioni di LBO, tende a riguardare la parte della struttura del capitale più senior e a rischio più contenuto, mentre il private credit per la restante parte, più flessibile e ad alto leverage. Ecco che, sempre di più, banche e fondi di debito privato finiscono per lavorare le une al fianco degli altri, attraverso strutture ibride. Lo conferma l’avvocato Fagotto. «L’interazione tra credit funds e banche è una caratteristica del mercato attuale. Sono soggetti che guardano la stessa entità, ma da prospettive diverse e la competizione, la maggior parte delle volte, lascia spazio alla complementarità: se la banca è più dedicata alla parte amortizing, nonché all’operatività e al capitale circolante, il private debt si focalizza maggiormente sulla parte bullet e sul credito straordinario e più rischioso». Pertanto, parlare di debito privato oggi, a quasi 15 anni dal suo boom, significa raccontare non più uno strumento ulteriore, ma un soggetto protagonista che, anche in Italia, è in grado di alimentare il flusso di capitale con più flessibilità, permettendo alle imprese di investire nella crescita delle proprie realtà mantenendone il pieno controllo.
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