Candeli: «Il fintech è fondamentale ma le banche non scompariranno»

A fine ottobre Banca Profilo, in partnership con Tinaba, ha lanciato un servizio di gestione patrimoniale digitale del tipo robo advisor, accessibile attraverso la app, a basso costo e adatto a chi non possiede grandi patrimoni e competenze finanziarie, con una soglia di investimento di 2mila euro.

L’operazione utilizza l’operatività di Banca Profilo, istituto controllato dal
fondo Sator di Matteo Arpe (fondatore della piattaforma con l’acronimo di This is not a bank), che di Tinaba possiede un 5%, e rappresenta un’ulteriore apertura della banca verso il fintech.

L’innovazione è d’altra parte un elemento integrante del piano industriale 2017- 2019 del gruppo che prevede lo sviluppo dell’offerta di servizi bancari e finanziari attraverso i canali digitali per un target di ricavi attesi per circa 4 milioni di euro a fine piano.

Come spiega in questa intervista a MAG l’amministratore delegato di Banca Profilo Fabio Candeli (nella foto), «il digitale è un aspetto che non può più essere ignorato da una banca di qualsiasi dimensione. La capacità distributiva del fintech è ormai evidente ed è necessario trovare il modo per integrarla nell’attività bancaria. Per fare questo esistono diversi modi».

Quali, dott. Candeli?
Noi abbiamo scelto di sviluppare le attività fintech con una partnership con Tinaba ma al di fuori della banca, sia fisicamente sia a livello giuridico perché riteniamo che le capacità distruptive del fintech debbano stare in un ambiente separato rispetto a quello bancario classico. Si tratta di un approccio diverso da quello di chi decide ad esempio di creare una startup o canali digitali interni alla banca.

Perché?
Nella banca tradizionale si corre il rischio che la spinta innovativa rimanga soffocata dalle vecchie logiche e dal modo di lavorare della banca e anche dalla regolamentazione, che oggi impone dei paletti molto alti per gli istituti di credito che in un certo senso limita la loro capacità di fare innovazione. Da qui l’idea di stringere un accordo con Tinaba e di detenere il 5% del capitale.

Come vi relazionate?
Con Tinaba agiamo in qualità di partner e mettiamo a disposizione la nostra piattaforma bancaria, con la quale Tinaba si integra per offrire i suoi servizi al cliente.

Di recente avete lanciato un robo advisor utilizzabile attraverso la app di Tinaba, di cosa si tratta?
È un sistema di gestione patrimoniale individuale classico che abbiamo spogliato della burocrazia, della difficoltà di utilizzo e dei costi accessori unendo alla tecnologia l’infrastruttura e le competenze che erano già presenti in Banca Profilo, che si occupa da sempre di consulenza patrimoniale e finanziaria.

Come abbattete i costi?
Sicuramente attraverso questa unione di competenze e tecnologia, ma anche attraverso alcune facilitazioni, ad esempio scegliamo gli Etf meno cari e più performanti, adatti alla tipologia di cliente ai quali questo servizio è rivolto.

Avete integrato un nuovo prodotto nella vostra offerta, dunque…
In realtà rispetto all’attività tradizionale nel fintech la logica è capovolta: non si tratta solo di vendere un prodotto ma si parte dall’esigenza di un cliente che poi viene soddisfatta attraverso la capacità di user experience del digitale. In questo caso il nostro obiettivo, su spinta anche delle indicazioni a livello europeo, è stato quello di colmare l’advisory gap che esiste per clienti che arrivano fino ai 60-70mila euro. Questa fascia di persone non è servita ed è per definizione il target ideale per il digitale.

La tecnologia e il digitale sono ormai elementi utilizzabili per ogni attività bancaria. In quali secondo lei le banche sono più sotto pressione? Viene da dire i pagamenti…
Il settore dei pagamenti è sicuramente il primo ambito in cui il fintech è si è insediato perché è il più intuitivo, ma ciò non ha particolarmente intaccato le banche poiché queste avevano già perso il primato con l’arrivo dei circuiti delle carte di pagamento. I segmenti in cui si avrà maggiore impatto sarà quello della gestione patrimoniale, quindi i robo advisor, e i crediti. Quest’ultimo è, in particolare, un settore che il digitale vuole intercettare.

Si spieghi…
Il digitale funziona per quei prodotti standardizzati, redditizi e semplici da gestire, come ad esempio il factoring o il credito al consumo. Per tutta quella parte che invece necessita di una conoscenza approfondita del cliente e che richiede competenze tecniche di credito e di finanza, la banca, a mio avviso, resterà l’interlocutore principale.

Quindi non c’è il pericolo di estinzione delle banche?
Dal punto di vista industriale le banche hanno sicuramente la massa critica, i clienti e la struttura per gestire l’attuale momento di cambiamento. Il fintech ha dalla sua la capacità di rispondere meglio e più velocemente alle esigenze dei clienti ed è meno regolamentato.

Lei ha detto inoltre che in banca non c’è la giusta mentalità per far fiorire il fintech…
Il tema centrale è proprio questo. La mentalità è ciò che fa la differenza. Quella legata al digitale richiede capacità e competenze per gestire aspetti che nascono dal digitale e che difficilmente una banca potrà comprendere appieno. Mi riferisco ad esempio a un modo di intendere il lavoro completamente diverso. Questo, unito ai limiti burocratici e di compliance, rendono difficile a un istituto di credito lo sviluppo di soluzioni fintech all’interno. Avere una realtà esterna che apporta innovazione può essere invece un sistema per integrare quelle competenze e avere un vantaggio competitivo.

A proposito di innovazione, l’attuazione della direttiva Psd2, e quindi dell’open banking, è ormai alle porte, cosa ne pensa?
Credo sia un cambiamento potenzialmente pericoloso per chi non saprà adeguarvisi, ma non nel breve termine perché si scontra con la resistenza dei clienti ad affidarsi a operatori non bancari e poco conosciuti. Tuttavia può essere uno stimolo per le banche che fino ad oggi hanno avuto una spinta verso l’innovazione limitata.

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