Donne in banca? Sì, ma non fanno carriera

Macchine automatiche, skateboard volanti, scarpe che si allacciano da sole e banche con comitati esecutivi formati per il 30% da donne. Siamo nel 2030 ed è fino a questa data che, di questo passo, ci toccherà aspettare per raggiungere un effettivo bilanciamento di genere nei vertici delle aziende del settore finanziario.

Stando infatti ai dati della ricerca “Women in financial services”, realizzata dalla società di consulenza Oliver Wyman, attraverso l’analisi dei board di 381 società finanziarie in 32 Paesi, «nonostante negli ultimi 15 anni in Italia ci sia stato un aumento della presenza delle donne negli organi di governo degli istituti finanziari, a livello dirigenziale l’evoluzione rimane molto lenta». A parlare è Klara Jandova, fra i curatori della ricerca. «Se ci sono voluti 13 anni per arrivare al 17% di donne nei comitati esecutivi – chiede -, dobbiamo aspettarne altri 15 per arrivare al livello di Paesi più avanzati come Svezia e Norvegia?». La domanda serve anche a puntare l’attenzione su quali siano le cause di questa disparità. Solo capendo quali sono i “muri da abbattere” che ancora formano il famoso soffitto di cristallo, sarà infatti possibile velocizzare questa evoluzione e raggiungere la parità.

Più donne nei board
Stando a quanto emerge dalla ricerca, a livello di consiglio di amministrazione e di sorveglianza, la percentuale delle donne presenti nei board italiani è passata dal 5% del 2003 al 26% del 2016 (+21%), in linea con la media globale (20%) ma ancora indietro rispetto ai Paesi virtuosi quali Svezia (38%) e Norvegia (36%). Nei comitati esecutivi del nostro Paese l’evoluzione è stata ancora più marcata perché si è passati dallo 0% nel 2003 al 17% nel 2016 – e la quota cresce oltre il 20% se consideriamo solo il settore pubblico.

A livello generale, la percentuale di membri donna di cda e comitati esecutivi di istituzioni finanziarie in Italia è del 16%, dato in linea con la media globale (16%) ma che ci porta in basso, nella classifica mondiale, sotto non solo a Svezia e Norvegia (rispettivamente 32 e 33%) ma anche a Paesi insospettabilmente paritari come Thailandia (31%), Sud Africa (27%) e Israele (26%). Ad aver dato una spinta positiva verso un bilanciamento di genere nelle stanze dei bottoni è stata, per buona parte, la legge Golfo-Mosca del 2011 sulle “quote rosa”, che fissa una soglia di rappresentanza nei cda al 20% per il primo rinnovo dei consigli e al 33% per il secondo. Segno che l’input governativo, quando c’è, può essere efficace.

Un altro segnale positivo lo fornisce una società di executive assessment & development citata nella ricerca. Dal 2008 al 2016, la percentuale di donne valutate per posizioni dirigenziali nel settore bancario è raddoppiata per tutte e tre le banche prese in esame, passando dal 3 al 7%, dall’11 al 20% e dal 10 al 22%. Ciò dimostra che «la sensibilità riguardo la diversità di genere ha subito una forte accelerazione nel corso degli ultimi anni, creando le premesse, quantomeno culturali, per imprimere nuovo e maggiore impulso alle iniziative mirate al ribilanciamento di genere», spiega Jandova.

Scendendo nel dettaglio, a livello globale, la maggiore percentuale di donne in cda e comitati esecutivi si trova nel settore pubblico (22%), seguito dall’asset management (18%), dal market infrastructure (15%) e, in egual misura, dall’assicurativo e dal bancario (14% ciascuno). Quanto ai dipartimenti, i primi due a ospitare più donne sono l’hr e marketing (45%) e il legal, audit and control (30%). La percentuale scende però se ci spostiamo in ambiti come l’operations and it (12%) o se saliamo di grado: solo 8 ceo su 10, infatti, sono donne.

Avanzamento di carriera e dispersione
Questa differenza di percentuale fra donne e uomini ai posti di comando è un indicatore del fatto che nonostante ci sia unasostanziale parità di genere al momento dell’ingresso in azienda, la vera discriminazione, per lo più involontaria, si presenta ai livelli superiori.

Come evidenzia la ricerca, il numero di donne con un inquadramento contrattuale di quadro o dirigente è molto lontano dalla parità: mediamente, è donna il 30% dei quadri e il 13% dei dirigenti. «Sebbene queste percentuali scontino l’effetto delle generazioni in cui le donne erano meno presenti nel mondo del lavoro – spiega Jandova – questo aspetto non è sufficiente per spiegare lo squilibrio». Inoltre, se la percentuale di donne quadro nel settore finanziario sembra essere superiore a quello di altri, a livello dirigenziale il mondo finance perde terreno. Ciò riflette l’incapacità dell’industria di promuovere e salvaguardare il talento femminile all’interno delle aziende all’avanzare dei gradi di responsabilità.

Il problema principale, da questo punto di vista, è la dispersione, ossia l’abbandono di carriera. Nel mondo dei servizi finanziari ci sono dal 20 al 30% di probabilità in più che le donne manager lascino il posto di lavoro rispetto alle colleghe di pari grado in altre industrie. Questo a causa, fra le altre cose, di orari di lavoro troppo rigidi, di una differenza nella retribuzione tra uomini e donne (del 38% di media a livello globale, considerando stipendio e bonus) ma anche di un rapporto costi – opportunità di carriera troppo elevato. In uno schema lavorativo rigido, in assenza di servizi che agevolano la gestione del proprio tempo e considerando disuguaglianze nella remunerazione e nelle promozioni, per le donne il gioco non sembra valere la candela. Ed è forse per questo che nelle professioniste di età compresa tra i 30 e i 40 anni la volontà di sacrificare parte della propria vita privata per fare carriera scende sensibilmente rispetto ai loro colleghi e resta bassa fino ai 50 anni.

Oltre la barriera
Ma quali sono le cause di questa risicata rappresentanza femminile nelle posizioni apicali del settore finanziario italiano?

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