Ecco cosa chiede la finanza ai giovani

Tra il 2007 e il 2014 la disoccupazione in Italia è aumentata del 108,2%. E a marzo 2015, in attesa dell’effetto Jobs act, è arrivata a quota 13%, secondo gli ultimi dati Istat. I più penalizzati dalla crisi economica sono stati senza dubbio i giovani. La disoccupazione giovanile (15- 24 anni) supera il 43%. Si tratta del livello più alto da agosto scorso. Questa “ecatombe” professionale, che non accenna a rallentare, ha colpito quasi tutti i settori produttivi del Paese, compreso quello della finanza. Il quale, secondo quanto riportato dall’istituto nazionale di statistica, ha perso il 5% dei propri occupati, complici la recessione e una razionalizzazione degli sportelli bancari.

In questo contesto, viene da chiedersi quali siano, allora, le prospettive attuali per un giovane neolaureato che voglia lavorare e fare carriera nel mondo della finanza. La strada sembra essere infatti ancora più difficile rispetto ad altri percorsi professionali. Senza contare che, anche prima della crisi, riuscire a mettere piede in una grande banca d’affari o negli uffici di un private equity era già una sorta di “privilegio”, considerando l’elevato standard dei requisiti richiesti. «Si tratta di professioni molto competitive e pertanto bisogna avere un ottimo percorso accademico, possedere il giusto profilo e avere voglia di dare il massimo», sostiene Roger Abravanel (nella foto), direttore emerito di McKinsey e consigliere di amministrazione di aziende italiane e internazionali.

Sul tema del rapporto tra giovani e lavoro, Abravanel, assieme a Luca D’Agnese, responsabile di Enel dell’area America Latina, si è soffermato nel suo ultimo libro “La ricreazione è finita”, che analizzi dati più significativi sull’istruzione e sull’occupazione in Italia e nel resto d’Europa, e fornisce consigli pratici rivolti ai giovani per costruire il proprio futuro.

L’UOVO DI COLOMBO? LE SOFT SKILLS
“Perché il lavoro c’è, anche se non si vede”, recita la descrizione del libro. E per trovarlo, indipendentemente dal settore, sostiene Abravanel, i giovani devono puntare sulle cosiddette soft skills, quelle capacità intangibili come il problem solving, l’apertura mentale e la proattività. Quello che i datori di lavoro cercano oggi nei giovani è molto diverso da ciò che volevano cinquant’anni fa: meno “mestiere” e più senso di responsabilità, spirito critico e capacità di comunicare con gli altri. In particolare, «nel settore finanziario – spiega Abravanel – bisogna essere dei buoni deal maker, quindi saper fare le transazioni e valutare tutti i termini di una compravendita». Colui che lavora in una banca d’affari «è una persona che deve saper decidere in fretta e avere fiuto per gli affari». Fondamentale è poi «abbracciare una serie di valori professionali come il rispetto della deontologia, la discrezione e il saper conciliare gli interessi del cliente con quelli della propria banca». Nel private equity è invece importante «conoscere l’azienda di interesse e avere la voglia di farla crescere». E le competenze tecniche? «Contano meno di quanto ci si aspetti – osserva Abravanel -. Per diventare un banchiere d’affari non necessariamente si deve essere grandi esperti di finanza. Sono abilità che si sviluppano con la pratica. La sua preparazione iniziale deve invece essere orientata a migliorare la capacità di risolvere i problemi, di interagire e lavorare con gli altri ma soprattutto di ragionare». Per fare questo mestiere, infatti, «non necessariamente bisogna essere laureati in economia, ci sono molti ingegneri che, come me, lavorano nel private equity, poiché è un percorso di studi che insegna a ragionare bene con la propria testa, a esercitare le proprie capacità analitiche e a saper leggere i numeri nel modo più corretto».

NEL TERZIARIO C’È IL 70% DEL LAVORO…
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Noemi

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