Il venture capital secondo Magrini

di claudia la via

La pandemia ha fatto bene al venture capital: da una parte la crescita esponenziale dell’e-commerce, dall’altra una maggiore attenzione delle grandi corporate verso innovazione e startup, hanno reso il 2020 un anno da “record” a livello mondiale. In questo ecosistema in costante crescita ci sono anche tante brillanti idee italiane. Alcune hanno trovato casa all’estero. Altre hanno ingolosito grandi fondi internazionali. Come nel recente caso di Commerce Layer – piattaforma per l’ecommerce che ha finora raccolto 22 milioni di euro e appena chiuso un round da 16 milioni, mettendo a segno l’interesse di circa 150 fondi tra UK e Usa. Per l’imprenditore e venture capitalist Massimiliano Magrini, co-fondatore e managing partner di United Ventures, il fatto che non ci fossero fondi italiani in questa operazione non è un limite. «Piuttosto è un’ottima notizia che investitori internazionali abbiamo puntato su un’azienda italiana. Sono sicuro che nei prossimi mesi vedremo un’accelerazione di investimenti di venture capital esteri in startup italiane, e questa non può che essere una notizia positiva», spiega. 

L’Italia, però, ha ancora numeri un po’ piccoli rispetto agli altri Paesi. E questa è, secondo Magrini, la conseguenza di uno svantaggio competitivo degli anni passati che scontiamo ancora oggi.

Cosa vuol dire?
Vuol dire che l’Italia ha avuto un vuoto di investimenti che è durato praticamente un decennio, dopo la bolla del 2000 e fino al 2011. Dal 2012, poi, si è ricominciato a investire ma ovviamente si è accumulato un ritardo rispetto agli altri Paesi che, nonostante l’aumento costante dei volumi d’investimento – i deal di venture capital in Italia nel 2020 sono saliti del 58% rispetto all’anno precedente – non si è ancora recuperato. 

Qual è la ragione principale di questo ritardo?
Sicuramente la mancanza a oggi di investitori istituzionali che abbiano integrato stabilmente il venture capital nella propria asset allocation. Ci sono poi alcuni operatori che magari investono nell’asset class, ma non in Italia.

Abbiamo tante startup ma molte ancora troppo piccole per avere le forze per svilupparsi: che cosa servirebbe per una crescita più decisa? 
Un ecosistema di innovazione ha bisogno di tempi di maturazione lunghi. La Silicon Valley è nata tra gli Anni 50 e 60 del Novecento. In Europa si è cominciato ad investire principalmente attraverso le agenzie di promozione nazionali e l’European Investment fund (EIF), mentre in Italia solo recentemente Cassa Depositi e Prestiti (CDP) ha cominciato a svolgere il ruolo di anchor investor che le omologhe KFW e Caisse des Dépôts hanno svolto in Francia e Germania.
Un altro elemento di ritardo è costituito dall’assenza di grandi aziende come investitori nei fondi di venture capital. Solo recentemente si è cominciato a vedere una presenza anche in Italia di questi operatori, che hanno un ruolo fondamentale nel consolidare il mercato.

Il canale privilegiato per le misure di rilancio economico delle imprese è quello delle banche. Può funzionare anche per le startup?
Le startup hanno bisogno di…

PER PROSEGUIRE LA LETTURA CLICCA QUI E SCARICA LA TUA COPIA DI MAG

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

SHARE