Intrum punta sull’Italia e va a caccia di Utp

Quello delle non performing exposure «negli ultimi anni è stato un rischio per la salute del sistema bancario e finanziario italiano. Le banche lo hanno affrontato nel mondo migliore possibile, seppur tardi, ora però il lavoro non è finito, al contrario c’è ancora molto da fare, sia nella vendita sia nella gestione». Ne è convinto Giovanni Gilli (nella foto), presidente di Intrum Italy – partecipata al 49% da Intesa Sanpaolo ed al 51% dal gruppo di Stoccolma – che con la sua società vuole inserirsi in questo contesto e far diventare il servicer un partner per le banche. L’obiettivo, racconta in questa intervista a MAG, è «fornire agli istituti di credito clienti servizi di servicing a tutto tondo e per ogni tipo di asset, da quelli granulari ai grandi numeri. Abbiamo una struttura grande e organizzata che ci consente di farlo».

Come raggiungerlo? La strategia sembra chiara. Innanzitutto, c’è la volontà di aggredire il ricco e fiorente mercato degli Unlikely to Pay (utp), quasi 87 miliardi di euro di crediti. A oggi il gruppo in Italia ha in portafoglio oltre 43 miliardi di crediti deteriorati, di cui poco meno di 2 miliardi di utp. «È una quota che vogliamo assolutamente aumentare, di opportunità ce ne sono molte», conferma Gilli. Intrum guarda a partnership – come quella con Intesa Sanpaolo su 10 miliardi di NPLs – che per il presidente sono «la strategia vincente», ma anche all’acquisto di pacchetti. A questo proposito, secondo notizie raccolte da MAG e non confermate, Intrum Italy starebbe guardando ai crediti di cinque o sei banche, tra le quali Unicredit, che ha messo in vendita 1 miliardo di vecchi incagli. All’attivo c’è invece un accordo di gestione proattiva di un portafoglio di crediti a sofferenza e a incaglio diretto secured, legato a immobili residenziali e industriali presenti sul territorio, stipulato nel maggio scorso con Cassa di Risparmio di Fermo.

Poi c’è l’implementazione tecnologica: «A livello di gruppo stiamo lavorando a una piattaforma che sfrutti l’intelligenza artificiale per gestione più efficiente dei crediti deteriorati attraverso i dati», racconta. E la partecipazione al risiko dei servicer, che il ceo Marc Knothe ha definito «un’opportunità ma non un obbligo per noi, in quanto siamo già sufficientemente grandi».

Il colosso scandinavo sembra dunque avere l’intenzione di puntare ancor di più sull’Italia. Quanto non è possibile stabilirlo, «dipenderà dalle opportunità che si creeranno», dice Gilli. Intanto la società di servizi al credito ha annunciato che entro l’estate del prossimo anno avrà un nuovo quartier generale a Milano nella zona di Porta Nuova dove «centralizzeremo tutti i 260 dipendenti milanesi mentre su Roma, dove le persone sono 290, ci sono due o tre occasioni ed entro fine anno chiuderemo», spiega. «Da Udine fino a Palermo rimaniamo dovunque e, questo, per noi è un vantaggio perché cosi siamo vicini al territorio e alla nostra clientela».

 

Dott. Gilli, a che punto siete sul fronte utp?

Attualmente stiamo parlando con clienti potenziali per acquisire pacchetti di crediti o proporre joint venture. Intrum è strutturata in modo da poter fare o l’uno o l’altro.

 

Quanti crediti volete acquisire?

Non abbiamo un tetto o un obiettivo all’acquisto, c’è la volontà da parte della capogruppo di investire sull’Italia, abbiamo una disponibilità importante che utilizzeremo a seconda delle opportunità che si presenteranno di volta in volta.

 

Quando pensate di finalizzare qualche operazione?

Già nei prossimi mesi ritengo che il mercato si concretizzerà, anche per la spinta e l’attenzione del regolatore che oggi sono più forti che mai.

 

Quale è il vostro obiettivo?

Così come abbiamo una posizione forte sugli npls, c’è tutta la volontà di costruirla anche sugli utp. Oggi Intrum Italy è fra le realtà meglio posizionate come value proposition, anche perché abbiamo il vantaggio di avere una struttura, a partire dalla presenza sul territorio, che ci consente di gestire qualsiasi tipo di asset. Questo è un grande vantaggio competitivo. Sei efficiente e riesci a gestire bene delle posizioni di dimensioni più piccole perché le agganci a un sistema che già funziona di per sé.

 

Come vi inserite nel processo di consolidamento tra i servicer?

Questo è un mestiere di dimensioni, per cui averle è fondamentale. Detto questo, con Intrum siamo disposti a valutare tutte le opportunità, anche piccole ma strategiche, ma non ne abbiamo la stretta esigenza, non siamo obbligati, perché abbiamo una dimensione tale che ci consente ugualmente di proseguire. Sicuramente c’è disponibilità a livello di gruppo di investire ancora sull’Italia e il mercato ha degli spazi interessanti.

 

A livello di mercato, a che punto siamo quando parliamo di crediti deteriorati?

In passato, quando gli npl erano al 18% del totale impieghi, ci trovavamo di fronte a una patologia e un grande rischio di crisi del sistema, oggi la febbre si è abbassata e i ratio che ci sono non sono pericolosi, abbiamo raggiunto a livello di sistema una posizione assolutamente gestibile e sostenibile, ma non sufficiente. C’è ancora molto da fare, a mio avviso.

 

Anche sugli npls?

Ritengo di sì. La Banca centrale europea vuole evitare che di fronte a una eventuale recessione futura si ricrei la stessa situazione critica del passato e per questo auspica interventi preventivi che riguardano il totale del deteriorato, compresi gli npls. Su questo fronte l’opera non è ancora conclusa e occorrerà abbassare ulteriormente il livello, direi di almeno tre punti percentuali e cioè indicativamente 50 miliardi di ulteriore abbattimento degli stock di deteriorati complessivi in due anni, se vogliamo dare qualche cifra.

 

Per fare questo passo vedremo ancora delle cessioni?

La mia risposta è sì, è difficile che si arrivi a tale livello solo attraverso la normale gestione. Inoltre le banche hanno ancora tutto l’interesse a vendere.

 

Perché?

Se vogliamo dividerle per dimensione, le due più grandi, cioè Intesa e Unicredit, stanno bene ma hanno dimostrato la volontà di battere i piani industriali. Una sfida virtuosa da cui mi aspetto un ulteriore cessione di deteriorati. Poi c’è il gruppo delle banche medio-grandi: molte di loro hanno fatto dei progressi ma altrettante continueranno con la pulizia per farsi trovare pronte a eventuali operazioni di consolidamento. La terza fascia è quella delle banche medio piccole e piccole dove i ratios sono più alti e quindi c’è ancora un forte bisogno di abbassarli. Infine, ci sono quelle situazioni di crisi dove il derisking è parte del processo di messa in sicurezza.

 

Tutte opportunità per chi fa il servicer…

Sicuramente c’è da fare e tutti gli operatori sono chiamati a contribuire. A questo va aggiunto che poi si aprirà il mercato secondario, che interessa almeno 180-150 miliardi di attivi lordi, di cui il 10-15% è potenzialmente aperto a operazioni di questo tipo.

 

Perché finora non ci sono state?

Perché prima doveva assestarsi il primario. Negli ultimi due o tre anni gli investitori si sono occupati delle cessioni tra le banche più di occuparsi di quelle fra di loro. Adesso il mercato si è assestato e la riorganizzazione interna dei portafogli degli investitori poterà a cessioni anche fra questi soggetti. È un’area sicuramente interessante che porterà a un aumento dei volumi in gioco.

 

La compravendita è la prima fase, poi c’è quella più difficile, cioè la gestione…

La sfida più rilevante è il miglioramento del recupero. Su questo fronte sono già stati fatti dei passi avanti, ad esempio sono state create non core unit all’interno delle banche, rafforzate le strutture di recupero interne e avviate alleanze con i servicer. Ciò ha contribuito a creare situazioni più favorevoli per il recupero.

 

Che però resta molto basso…

Perché c’è ancora da fare, in particolare per gli utp. A monte, mentre la cessione di bad loan è comprensibile, quelle degli utp, seppur parte della strategia e incoraggiate dal regolatore per abbassare il livello di npe complessivo, non sono affatto semplici.

 

Quale è il problema principale secondo lei?

Si tratta di clienti della banca che si trovano in situazioni complesse, spesso anche difficili da valutare. Inoltre gli utp si muovono poco, restano troppo tempo in quello stato per cui una parte si deteriora mentre un’altra resta viva ed è quella parte che andrebbe lavorata in modo attivo per riportarla il più possibile in bonis.  È qui che entra in gioco il servicer.

 

Come?

A mio avviso il compito dei servicer è quello di mettere a disposizione della banca competenze e strategie di intervento e di azione. Nel nostro caso, il modello della joint venture ha dimostrato di funzionare bene sul mondo degli npls, in Italia e anche all’estero, ad esempio in Spagna o Germania.

 

Che vantaggi ha?

Per la banca molti. Innanzitutto, rimane molto legata all’attività di recupero mantenendo delle quote. Vuol dire che la banca è a bordo e partecipa attivamente e negli utp è ancora più importante per restare più vicina ai clienti. In secondo luogo, il servicer può aiutare la banca anche dal punto di vista della nuova finanza, soprattutto se la banca è troppo esposta. Infine, ma è uno degli aspetti più importanti, apporta quell’expertise industriale puntuale e precisa che alla banca serve ma che non può avere internamente, mettendo a disposizione dei manager con l’esperienza industriale e finanziaria necessarie. Se si riesce a integrare bene le due aree, è sicuramente un gran vantaggio perché aggiungi alle competenze bancarie le skills e la tecnologia del servicer. E poi consente di valorizzare le capacità interne. In generale, in una situazione in cui occorre gestire in maniera puntuale migliaia di posizioni, il servicer fa da regista e interlocutore unico tra tutte le parti in gioco, dai legali alle imprese fino alla banca.

 

Quante persone avete integrato nella jv con Intesa?

Circa 600 persone.

 

Che tipo di risorse?

Specialmente quelle dedicate al recupero ma non solo. Ad esempio, abbiamo apportato internamente, in una sezione costruita ad hoc, anche la REOCO guidata dal nostro Real Estate & Leasing Director Salvatore Ruoppolo, che è importantissima per l’attività di recupero.

 

Quello delle risorse è uno dei problemi principali quando si parla di utp. Ne servono tante in termini numerici e con competenze elevate…

È così che attraverso la joint venture si possono usare anche le risorse della banca che vengono messe a fattor comune.

 

Si tratta di risorse molto skillate che costano, vale la pena? E per i portafogli più piccoli?

Nel nostro caso, i crediti granulari, sui 2-5mila euro, vengono gestiti attraverso altri tipi di strutture come ad esempio i call center. Da questo punto di vista…

 

PER CONTINUARE LA LETTURA SCARICA GRATIS L’ULTIMO NUMERO DI MAG

SHARE