Investitori istituzionali, non chiamateli minoranze

Minoranze sì, ma solo di nome. Perché se è vero che da un punto di vista prettamente percentuale gli investitori istituzionali rappresentano solo una piccola parte dell’azionariato di un’impresa, da quello qualitativo questi soggetti hanno iniziato da qualche tempo a far valere le proprie ragioni in consiglio di amministrazione, andando, se necessario, contro le scelte della maggioranza.
In particolare, come evidenzia la ricerca Istitutional Investor Suvery 2019 di Morrow Sodali (tra i principali player di consulenza specializzata in servizi per azionisti e obbligazionisti, di corporate governance, di proxy advisory) sono tre gli ambiti che destano maggiormente l’attenzione degli istituzionali: le remunerazioni, la composizione del board e naturalmente i criteri Esg (environmental, social, governance).

La survey è stata condotta su un campione di 46 investitori istituzionali che detengono 33mila miliardi di dollari di masse gestite. Ebbene, alla domanda su quali sono i temi in cui sono più coinvolti durante le assemblee annuali, il 67% degli investitori ha risposto la remunerazione, seguito da cambiamento climatico ed Esg, rispettivamente per il 26% e il 22% dei rispondenti, e la composizione del board per il 45%.
Il filo conduttore è il risultato: gli investitori istituzionali stanno diventando più attenti alla performance aziendale, che si traduce in un atteggiamento più “severo”, per così dire, quando si tratta di approvare o meno ciò che la maggioranza presenta al board, con il rischio implicito di uno stallo o di uno scontro.
Si tratta di trend globali, destinati a cambiare le dinamiche di governance delle grandi aziende, e che riguardano, seppur in misura ancora ridotta, anche l’Italia. Nel nostro Paese dal 2016 a oggi, sempre secondo le rilevazioni di Morrow Sodali, la media di voti favorevoli in assemblea è diminuita sensibilmente, ad esempio per ciò che riguarda le politiche di remunerazione. Di contro, il quorum è in aumento.

Pay for performance
Il tema principale è dunque la remunerazione. «Gli investitori – spiega Andrea Di Segni, managing director e tra i fondatori di Morrow Sodali – hanno iniziato ad agire secondo politiche pay-for-performance, legando cioè sempre di più la remunerazione dei manager sulla base dei risultati della società». Lo evidenzia anche la ricerca: il 65% degli investitori ritiene essenziale la pay-for-performance quale elemento di valutazione della remunerazione degli executive.
Il 56% pensa che lo sia la diligenza nel raggiungimento dei target e il 41% l’inclusione di target di performance a lungo termine con sistemi di incentivazione.
Solo il 30% ritiene il pay quantum un elemento di valutazione. Questa maggiore volontà si riflette nel voto in assemblea.
In Italia, dal 2016 a oggi i voti delle minoranze favorevoli alle politiche di remunerazione nelle società del Ftse Mib sono diminuiti dl 75,9% al 60,62%. Con essi scende anche la media generale di voti favorevoli, dal 91,54% all’86,4%.
Tuttavia, sottolinea Di Segni, «non è sempre facile valutare gli aspetti di performance e spesso gli investitori hanno poca possibilità di intervento. È necessario dunque che le società si adeguino per capire e gestire il livello di rischio di stallo in assemblea».
Per fare qualche esempio, quest’anno sono stati numerosi i casi in cui le minoranze hanno votato contro riguardo alle politiche di remunerazione, da Atlantia a Salvatore Ferragamo. In un caso, Telecom Italia, il voto complessivo è stato contro. Questa maggiore intraprendenza, allo stesso tempo, «sta portando a un calo del peso dei proxy advisor», sottolinea Di Segni.

Competenze industriali
Altro aspetto importante è l’attenzione alla figura dei manager. Cosa guardano gli investitori? Le skills (70%) e l’indipendenza (67%), innanzitutto, ma anche l’esperienza in una determinata industry (41%). Questi fattori sono essenziali, per gli investitori, anche in ottica di diversificazione. Il genere è sì un elemento da valutare con attenzione (per il 35% dei rispondenti) ma contano di più la varietà di skills e qualificazioni (per l’89% degli investitori) ma anche di esperienza professionale (72%).
«È un aspetto interessante, specialmente nel mondo della finanza – osserva Di Segni -. La Bce ha espressamente richiesto la presenza di competenze professionali specifiche e ora anche per gli investitori questo è un elemento fondamentale. Ciò anche in ottica di diversità». Ugualmente importante è la questione della lista del cda. «Quest’ultima – sottolinea il managing director – porta maggiore trasparenza nei processi interni in cui i comitati nomine, dopo aver analizzato obiettivi, diversità e carattere del board danno un incarico a un head hunter di trovare un candidato che viene presentato al comitato».
Per gli investitori «questo è un processo positivo anche se dipende dalla composizione del board: è poco amata dalle minoranze se esiste un azionista di riferimento con una grande quota».
Nel nostro Paese ci sono stati degli esempi, uno su tutti Unicredit, e in generale «la lista del cda è un sistema avanzato, purché questo renda il processo di selezione solido e non rappresenti solo una sorta di “esterovestizione” di una lista del socio di maggioranza», commenta.

Sostenibilità e ambiente
Infine, i criteri Esg (Environmental, social and corporate governance). Guardando i dati della ricerca, ai fini del voto in assemblea, la sostenibilità è fondamentale per il 54% degli investitori mentre le performance finanziarie contano per il 48%. Le società, in futuro, dovranno dunque concentrarsi sulla gestione dei parametri Esg in termini di strategia aziendale e obiettivi di performance, il che implica …

 

PER CONTINUARE LA LETTURA SCARICA GRATIS L’ULTIMO NUMERO DI MAG

Noemi

SHARE