Quando la meritocrazia non entra nella busta paga

I consigli di amministrazione delle grandi aziende stanno tentando da anni di collegare la retribuzione del proprio ceo ai risultati realizzati durante l’anno. Tuttavia le due variabili sembrano ancora procedere in maniera indipendente e il 2017 conferma questa tendenza.

Negli Stati Uniti, scrive il Wall Street Journal, tra i ceo del S&P 500 che hanno visto il proprio stipendio diventare più corposo lo scorso anno, il 10% di quelli con l’aumento più alto hanno ottenuto un total shareolder return di medio livello rispetto al resto del mercato. Allo stesso modo, il 10% delle aziende che hanno registrato il ritorno migliore per gli azionisti ha aumentato lo stipendio del proprio ceo per un valore in linea con altre aziende che sono cresciute di meno.

I ceo più bravi, dunque, sono spesso “sottopagati” rispetto a quelli medi, che al contrario vengono ricoperti di denari. Una delle ragioni di questa discrepanza potrebbe essere legata allo “stipendio benchmark”: molti dei board, ha spiegato Herman Aguinis, professore alla George Washington University School of Business, remunerano il proprio ad sulla base dello stipendio medio, benchmark, delle aziende attive nello stesso mercato e valutano le performance allo stesso modo.

Questo divario, tra l’altro, dura nel tempo. Uno studio condotto da Aguinis sull’operato di 4mila ceo nel corso dei loro mandati e in relazione alle performance ha rivelato che tra il 10% dei migliori ad in termini di performance, solo un quinto era anche nel 10% dei più pagati.

La correlazione manca anche le se performance sono negative. Per fare un esempio, Kevin Plank, ceo di Under Armour, lo scorso anno ha guadagnato il 98,4% in più dell’anno precedente (4 milioni di dollari) mentre il ritorno dell’azienda di articoli per lo sport calava inesorabilmente di oltre il 50%. Il ceo di Comcast Brian Roberts ha guadagnato in tre anni 33 milioni di dollari mentre i ritorni passavano dal 25% a -1,1%.  A tal proposito, il gruppo ha detto di considerare lo stipendio del proprio ceo sulla base di metriche a lungo termine e legate al management invece che alle performance anno dopo anno.

Guardandola da un’altra prospettiva, l’aspetto più interessante di tutta la questione è però un altro. È il fatto che il tema della retribuzione, complici anche alcuni scandali che hanno coinvolto principalmente il settore bancario, non è più ormai un affare privato, è diventata di domino pubblico. E ciò la lega a doppio filo con un altro aspetto ben più ostico, quello della reputazione, una variabile che ai board, forse sta più delle performance.

 

Questo articolo è tratto dalla rubrica Follow the Money presente sulla rivista MAG. Scarica qui l’ultimo numero

Noemi

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