La prima regola del proxy fight “club”? Puntare sul board
Lo scorso 4 maggio il fondo attivista Elliott, guidato da Paul Singer (nella foto), ha fatto ciò che molti non si aspettavano fino a un anno fa: conquistare il maggior numero di voti nell’assemblea dei soci di Tim scalzando dalla guida l’azionista di maggioranza, la Vivendi di Vincent Bolloré. Con solo l’8% del capitale sociale acquistato negli ultimi tre mesi, il fondo ha raccolto consensi da azionisti che nel complesso rappresentavano il 49,84 % – fra i quali Cassa depositi e prestiti – aggiudicandosi dieci componenti del board su 15. Vivendi, che possiede il 22% circa del gruppo delle telecomunicazioni, si è fermata al 47,18%.
La mossa di Elliott ha fatto notizia non soltanto per il ribaltone in sé ma anche perché è rappresentativa dell’evoluzione dei fondi attivisti avvenuta negli ultimi quattro anni, dopo un periodo di assestamento e sviluppo durato dal 2008 al 2014, stando a una ricerca condotta da Jones Day. Ma anche dell’interesse che questo tipo di azionisti, sempre più sofisticati e agguerriti, sta avendo per il nostro Paese.
Italia seconda “preda” al mondo
Con la rete di partecipazioni incrociate nelle grandi aziende che si sta smantellando dopo la crisi finanziaria globale, gli investitori nordamericani e britannici, con stili di investimento più aggressivi, stanno costruendo una presenza in Italia. In particolare i fondi anglosassoni detengono il 60% della quota di tutti gli istituzionali delle blue chip italiane, secondo Borsa Italiana, la quale non fornisce paragoni storici ma stando agli esperti di corporate governance l’influenza di questi fondi è in crescita. Nel 2017 nove aziende italiane sono state nel mirino dei fondi attivisti, meno rispetto alle 12 del 2016. Ma le probabilità di essere nel mirino sono alte. Stando a un’analisi su 1.740 coinvolgimenti di fondi attivisti in società quotate di 16 Paesi fra il 2000 e il 2010 condotta da Hannes Wagner, professore associato del dipartimento di Finanza presso l’Università Bocconi, circa il 13,3% delle aziende italiane ha avuto a che fare con l’attivismo dei soci (rispetto ad esempio all’11,6% dell’Olanda, il 7,6% della Germania e il 6% del Regno Unito). Esclusi gli Stati Uniti (19,6%), l’Italia è fra i Paesi con maggiore probabilità di essere oggetto di attenzioni di questi fondi.
Questo perché, spiega Andrea Di Segni, managing director di Morrow Sodali, «poiché il sistema di voto di lista italiano consente alle minoranze di scegliere un proprio candidato per il consiglio di amministrazione, questo rende più semplice per i fondi attivisti influenzare il board, al contrario, ad esempio, di quanto accade negli Usa».
Per citarne uno, il fondo attivista Amber capital in Italia ha portato avanti oltre dieci campagne fra il 2015 e il 2017. «La struttura degli azionisti delle società italiane è diventata meno concentrata: quando la crisi finanziaria ha iniziato a ostacolare i prestiti delle banche, gli azionisti di controllo sono stati obbligati a collocare alcune delle loro quote presso investitori istituzionali», aveva detto a Reuters Arturo Albano, corporate governance specialist ad Amber Capital, durante la Shareholder Activism Conference organizzata da Morrow Sodali e Jones Day all’Università Bocconi. Investitori che oggi possono pesare nel board: «Adesso siamo nella posizione di poter appoggiare le proposte di altri azionisti, incluse anche quelli degli investitori attivisti», aveva specificato Albano.
In Italia, tuttavia, l’attivismo dei soci ha ancora alcuni ostacoli da affrontare, come ad esempio il muro delle famiglie a capo delle aziende, pari al 33% di tutto il valore del mercato azionario, che potrebbero bloccare le iniziative degli attivisti. A questo si aggiunge il diritto di veto del governo – il cosiddetto “golden power”, attuato anche su Tim – attraverso il quale potrebbe bloccare i cambi di controllo attraverso le sue partecipazioni indirette nelle aziende quotate del Paese. In questo contesto, vale la pena ricordare l’esempio, nel 2009, del fondo attivista Usa Knight Winke che chiese di cedere alcune parti di Eni, di cui il Tesoro detiene una quota di riferimento. Cessione avvenuta solo tre anni dopo, con lo spin off di Snam.
Attenzione al consiglio
Di certo, come evidenzia Di Segni, «a prescindere dal risultato della proxy fight, questo tipo di campagne serve comunque a smuovere le acque, così come successe in quella di Knight Vinke su Eni, che seppur fallimentare ha contribuito al cambio di direzione nella gestione della società».
Nel complesso, in Europa i fondi attivisti contano asset under management per 32 miliardi (nel 2017).
Ma cosa spinge questo “fight club” di fondi a portare avanti campagne di tale portata e quali sono i presupposti per il loro successo? Qui sta uno dei trend principali. Rispetto al passato, infatti, spiega Di Segni, «soprattutto nei Paesi di matrice anglosassone, gran parte dell’attivismo era legato ad aspetti finanziari, ad esempio una disponibilità cash troppo elevata – come nel caso Apple – quindi un’allocazione del capitale non efficiente, un valore del titolo non soddisfacente o un’esigenza, non accontentata, di dismissioni di business non più core. Adesso invece, l’attivismo passa dal board, soprattutto per ottenere determinati cambiamenti come una semplificazione del business con spin-off e dismissioni».
Ciò è quanto accaduto, oltre che in Tim, anche nella società di infrastrutture tlc Retelit, anche se all’inverso. Il fondo attivista tedesco Shareholder Value Management si è infatti schierato contro i progetti di altri investitori, fra cui la Fiber 4.0 di Raffaele Mincione, di allontanare l’attuale amministratore delegato e unendo le forze con shareholders fra cui i libici di Bousval e i tedeschi di Axxion ha battuto Mincione confermando così i vertici della società, il presidente Dario Pardi e l’amministratore delegato Federico Protto.
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