L’Eldorado dei private equity Usa? È il Giappone

Da qualche tempo il Giappone è rimasto indietro nella corsa alla crescita rispetto alle altre potenze mondiali – una fra tutte la Cina. Potrà dunque sorprendere (o forse no) che oggi è invece proprio il Paese del Sol Levante la meta preferita dei grossi private equity statunitensi.

D’altronde il mercato cinese sovrasta di gran lunga quello giapponese quanto a investimenti in private equity, parliamo di una media di 72miliardi di dollari all’anno il primo contro i 9 miliardi del secondo. Ma per i fondi, scrive Bloomberg, Tokyo offre più opportunità.

I motivi sono molteplici. Da un lato, ad esempio, la politica protezionista cinese rende praticamente possibili solo investimenti di minoranza mentre molte delle target, proprio per via di questa “culla” statale, non sono ancora mature per aprirsi a partner finanziari.

Di contro, le cessioni degli asset non core da parte delle grandi conglomerate giapponesi rappresentano una pesca interessante per i fondi. Circa un quarto delle aziende del Nikkei 400 hanno 100 o più sussidiarie o controllate in settori diversi che stanno pensando di vendere. Una strategia è mettere insieme queste sussidiarie alle altre controllate dei private equity per creare dei leader globali. È ciò che sta facendo, ad esempio, Kkr. Il gruppo Usa, in Giappone dal 2010, dopo aver comprato il business healthcare di Panasonic nel 2013 ha acquisito la linea sul diabete di Bayer e sta per aggiudicarsi il business della salute di Thermo Fisher Scientific.

Al contrario della Cina, inoltre, il governo giapponese supporta questi buyout per avere aziende più solide e non conglomerati troppo diversificati. Anche perché molte delle imprese, come in Italia, si trovano in una fase di ricambio generazionale e abbiamo visto come spesso questa condizione sia uno spazio ghiotto per i fondi di private equity. Non a caso, questi colossi sembrano essere disposti a mettere mano al portafoglio: uno studio di Bain & Company ha rilevato che i private equity in Giappone sono disposti a pagare 9,7 volte l’Ebitda sotto forma di enterprise value per i loro obiettivi, mentre le corporate e il mercato azionario pagano quasi il 25 per cento in meno.

 

Questo articolo è tratto dalla rubrica Follow the Money presente sulla rivista MAG. Scarica qui l’ultimo numero

Noemi

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