Tronchetti Provera (Ambienta): «Siamo la prova vivente che si può fare»

Una certa idea di private equity. Quella di Nino Tronchetti Provera (nella foto), managing partner e tra i fondatori di Ambienta, è decisamente molto chiara. Quale sia la dice lui stesso, anche in pubblico, senza mezzi termini. Ma la sua visione viene suggerita anche dalla rapida ascesa che la società di investimento che guida – e che ha fondato assieme a Mauro Roversi e Rolando Polli nel 2007 – sta avendo in tutta Europa. «Siamo partiti con l’idea di costruire un’azienda, una firm che avesse avuto le carte in regola per crescere e continuare a operare a lungo nel tempo», spiega Tronchetti Provera in questa intervista a MAG. In poco più di dieci anni Ambienta è arrivata a gestire asset per 1 miliardo di euro, lanciando tre fondi rispettivamente da 217, 323 e 635 milioni ciascuno, che hanno visto la partecipazione di investitori italiani, come Intesa Sanpaolo, e internazionali e realizzando circa 30 operazioni. Fra queste, l’ultima in ordine di tempo è l’acquisizione di Phoenix e poi nel 2018 quella di Image S, un buy & build realizzato attraverso Next Imaging, l’acquisto di PibiPlast in partnership con L Catterton e quello di Aromata Group, società attiva nella produzione e distribuzione di aromi, estratti e coloranti naturali con applicazioni nel settore food & beverage, farmaceutico, nutraceutico e cosmetico.

Una crescita che è stata possibile anche grazie alla scelta, a suo tempo pionieristica, di puntare sulla sostenibilità ambientale quale filo conduttore di tutti gli investimenti: non solo aziende che operano nel settore ma anche realtà che nella loro attività hanno un certo tipo di impatto sull’ambiente.

Di recente, poi, il team si è rafforzato con sette nuovi ingressi, tre nell’ufficio di Düsseldorf, in Germania, cioè Johannes Bayer, Nicolaas Hackbarth Lennart Götz, e quattro a Milano, ossia Guido Emanuele Fucci, Nevena Batchvarova, Andrea Florio e Marco Riva, portando a 30 le risorse complessive dislocate fra la Germania, Milano – «dove abbiamo scelto di mantenere la nostra sede legale» – e Londra. «Siamo la prova vivente che si può fare», dice, mentre è al lavoro per ampliare l’offerta con altre asset class.

Rendere questo possibile significava pensare e agire come si fa con un’azienda in una vera industria del private equity. Quindi avere degli standard qualitativi ben precisi, un’organizzazione, un business plan e un progetto internazionale. Un modo di vedere la professione forse ancora poco comune nel nostro Paese, in cui tanti fondi di piccole o medie dimensioni fanno fatica a fare il salto di qualità, sia in termini di dimensione che di raccolta. Per Tronchetti Provera la risposta è semplice: «Oggi non si può rimanere locali perché altrimenti sei “cappato” alla crescita e di conseguenza non riesci ad attirare talenti, non hai manager di qualità e quindi performance». Anche perché questo «è ciò che chiedono gli investitori».

 

Dott. Tronchetti Provera, un private equity italiano come va all’estero?

Non so darle una regola generale ma posso dirle quello che abbiamo fatto noi. Valigia in mano, siamo stati un anno in giro per la Germania in cerca di contatti, cercando di capire se aprire o meno una branch e a chi affidarla. Da quando siamo andati lì per la prima volta a quando abbiamo aperto il primo ufficio è passato del tempo ma è così che funziona. Il primo passo è legato all’assunzione di un professionista proveniente da Siemens Ventures che ha creduto nel nostro primo fondo, ci ha aiutato a creare il brand e a spargere la voce. Con il secondo fondo abbiamo avuto l’endorsement e le risorse necessarie per avere in squadra un professionista come Nico Helling a gestire l’ufficio. Oggi, dopo sei anni, abbiamo rafforzato il team con nuovi ingressi e realizzato due exit, Lakesight Tecnologies e Oskar Nolte realizzando in entrambi i casi almeno il 50% di Irr.

 

Perché proprio in Germania?

Perché è un mercato molto simile al nostro. Come Ambienta guardiamo a pmi con un fatturato compreso tra i 10 e i 250 milioni di fatturato, in Germania ci sono almeno 76mila aziende di questo tipo. In Italia 79mila mentre in Francia e Uk neanche 40mila ciascuno.

 

Quali sono i vostri prossimi passi?

Al momento stiamo riflettendo sull’implementazione della nostra base a Londra, dove contiamo tre persone che diventeranno una decina. L’idea è gestire la Francia e i Nordics da lì.

 

Qual è l’obiettivo di posizionamento?

Vogliamo diventare un leader a livello mondiale nell’asset management legato alla sostenibilità ambientale.

 

Volete aprirvi ad altre asset class, ad esempio il debito?

L’idea c’è, ci stiamo lavorando perché siamo convinti che sia possibile investire in sostenibilità ambientale attraverso tutte le asset class.

 

Che significa per voi investire in sostenibilità?

Significa investire in aziende che hanno un preciso impatto ambientale, valutando ad esempio il consumo di energia o di risorse naturali, le emissioni di carbonio, l’inquinamento. Esistono dei mega trend a seconda del settore. Abbiamo delle metriche standardizzate con cui valutiamo l’impatto ambientale di una serie di aziende con differenti business models di diversi settori e operanti in diverse fasi della catena di valore. Noi siamo un fondo generalista ma abbiamo individuato un’area che è quella del futuro. Non è una questione di etica. Le aziende che operano in modo sostenibile sono quelle che cresceranno di più e saranno più redditizie.

 

Come siete organizzati internamente?

Abbiamo un career path in cui dai vari ruoli è previsto già un range di salari e carry interest per ogni ruolo. A fine anno sono anche previste delle valutazioni per tutti, anche per il sottoscritto, sulla base delle quali vengono decisi bonus e promozioni. Nel secondo fondo abbiamo avuto 16 promozioni con carry, per il terzo ne prevediamo almeno 22. In questo modo se qualcuno diventa partner è perché i colleghi l’hanno deciso. Ogni socio ha un solo voto, me compreso.

 

Come vede il mercato del private equity in Italia?

Rispetto al resto d’Europa siamo ancora indietro ma ciò non dipende dal livello di professionalità presente nel nostro Paese. Al contrario, ci sono tanti professionisti italiani nelle fila dei grandi fondi internazionali. Ciò che ci penalizza è l’assenza di un ecosistema del private equity che ci fa restare piccoli. Le faccio un esempio.

 

Prego…

In Europa questo settore vale 650 miliardi di euro (dati Invest Europe ndr), cioè 27mila aziende e 9 milioni di posti di lavoro, il che significa che un cittadino europeo occupato su 18 lavora in un’azienda del private equity. Di questi 650 miliardi, 350 sono nel Regno Unito, 100 in Francia, circa 50 in Germania e 10 scarsi in Italia. È evidente che occorre creare un sistema di GP che stiano in Italia, con progetti seri e la voglia di crescere.

 

Come voi…

Noi siamo la dimostrazione vivente che il salto qualitativo si può fare. Siamo partiti con l’idea di costruire un’azienda, una firm che possa crescere e continuare a operare a lungo. Per farlo devi diventare internazionale, andare in Germania, in Regno Unito. Le aziende che funzionano fanno così e il discorso vale anche per il private equity.

 

 

Nel nostro Paese però molti gestori fanno fatica a crescere e non riescono a raccogliere soprattutto perché gli investitori istituzionali investono ancora poco nel private capital…

Non sono d’accordo. Negli ultimi anni gli investitori istituzionali hanno svolto un percorso encomiabile verso questa direzione. Alcuni, per fare un esempio, stanno creando al proprio interno dei team con esperienza e competenze in questo settore, altri si affidano a consulenti specializzati o investono in private equity attraverso degli strumenti specifici. Oggi almeno dieci investitori istituzionali allocano il 10% delle loro risorse in questo settore.

 

Di chi stiamo parlando?

Sicuramente casse di previdenza e assicurazioni.

 

I fondi pensione meno…

Sì, ma anche loro si stanno attrezzando.

 

Ciononostante non sono ancora tante le risorse che vanno verso questo comparto, parliamo di percentuali irrisorie…

Partiamo da un presupposto. Adesso, con i tassi bassi, i rendimenti di tutti gli asset class che sono vicini allo zero se non negativi e con tutto il denaro stampato negli ultimi dieci anni, l’unica cosa di cui non si sente la mancanza è la liquidità. Oggi, molto più di prima, chi fa raccolta ha un sentiero di fundraising molto più facile. Ovviamente, però, dipende dal progetto…

 

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