Binello (Quadrivio): «Ai fondi servono più capitali italiani»

«Il private equity e il private debt sono l’unica cura per risollevare e far diventare grandi le aziende italiane». Alessandro Binello, presidente di Quadrivio sgr, ne è convinto. Non solo perché ha fondato nel 2000 una delle realtà d’investimento più grandi del Paese, con 60 dipendenti e 1,2 miliardi di asset in gestione, che guida assieme all’amministratore delegato Walter Ricciotti.

Ma anche perché questo tipo di attività, spiega a MAG, è perfetta per il tipo di aziende presenti in Italia: ottima qualità ed eccellenza ma poca liquidità. Oltre che per le ragioni legate alla crisi, come la difficoltà del sistema bancario di erogare nuovi crediti.

Il problema, però, è che «per le potenzialità del sistema, sono ancora troppo pochi gli investitori istituzionali e professionali che decidono di puntare sull’Italia», in particolare quelli italiani.

A livello generale, infatti, tra fondi pensione, assicurazioni, casse previdenziali, risparmio gestito e fondazioni, la potenza di fuoco supera i mille miliardi, ma solo una piccola parte (dal 2 al 3% stando ai dati Aifi) è destinata ai fondi di credito italiani. In Paesi come Francia, Germania o Regno Unito, nei primi nove mesi del 2015 i fondi di credito hanno raccolto circa 18 miliardi, portando a 60 miliardi la capacità di investimento nel credito alle imprese. In Italia, invece, stando a ricerche degli operatori di mercato, i pochi fondi non “bancari” per ora partiti hanno raccolto poco più di 700 milioni.

«L’ideale sarebbe che questi operatori investissero almeno il 10% delle proprie risorse nei fondi di credito italiani, mentre il rischio è che queste vadano all’estero», aggiunge Binello che con Quadrivio sgr è al momento impegnato nella raccolta per una serie di fondi diversi come il terzo fondo di private equity, che ha un target di 300 milioni da raggiungere entro fine anno, il primo di private debt e il primo dedicato alle energie rinnovabili (raccolti 50 milioni su un target di 300 milioni), un fondo di fondi (primo closing a 150 milioni su un target di 200 milioni) e un fondo di venture capital. Spazi per nuovi operatori? «Ci sono e sono anche grandi», assicura il presidente, «il tema vero è capire se ci sono gli investitori».

In che senso, dottor Binello?
Nel senso che le offerte ci sono e anche gli operatori. Mancano però i capitali, in particolare quelli italiani. Se infatti i grandi player internazionali vengono sempre più spesso in Italia per fare affari, dall’altro lato gli investitori italiani sono ancora restii a investire qui. Parliamo ad esempio di 600 miliardi di euro in mano alle casse previdenziali che rischiano di finire negli Stati Uniti o nel Far East.

Come mai? Poca fiducia nel sistema italiano?
Ci sono una serie di motivi. Innanzitutto credo che questo mercato sia ancora nuovo. Gli strumenti poco liquidi, come private equity o fondi infrastrutturali, sono relativamente recenti, fino a poco tempo fa questo mercato non era strutturato in termini di presenza, operatori e offerta. Oggi questi elementi ci sono, a mancare, forse, è solo un intervento legislativo, in modo da incentivare gli investimenti in Italia.

E quali sono gli altri motivi? Performance insoddisfacenti?
Tutt’altro. Negli ultimi tre anni, nonostante l’industria del private equity italiana sia meno sviluppata rispetto a quella europea o statunitense, l’Italia ha generato i migliori ritorni dall’attività di investimento in termini di tasso interno di rendimento, pari al 34,5%. Questo perché c’è una minore concorrenza dovuta al numero inferiore di operatori specializzati e un elevato numero di medie imprese rispetto agli altri Paesi europei.

Allora cosa li frena?
Probabilmente è una questione culturale….

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