Clessidra, 21 Investimenti e Charme spingono la raccolta del private equity nel 2015
Più operazioni ma meno investimenti. E un boom di raccolta spinta in particolar modo da tre operatori.
La fotografia scattata da Aifi e PwC nel resoconto sul primo semestre del private quity italiano fa sperare, a conti fatti, in una buona chiusura del 2015.
Innanzitutto aumenta il numero di operazioni registrate nel comparto, arrivando a quota 168, il 21% in più rispetto alla prima metà del 2014 (139 deal) anche se scende l’ammontare investito a 1,787 miliardi, il 5%, in meno considerando gli 1,89 miliardi di un anno fa.
Ma a balzare all’occhio è il boom della raccolta: +206% rispetto a un anno fa, ossia 1,671 miliardi. Una cifra che deriva dall’attività complessiva di dieci operatori. Anche se tre, secondo alcune fonti, sarebbero quelli che hanno dato il maggior contributo (l’89%): Clessidra, 21 Investimenti e Charme.
Il private equity guidato da Claudio Sposito (foto a sinistra) è stato finora protagonista di otto operazioni tra cui quella che l’ha vista acquisire Icbpi in cordata con Advent e Bain per oltre 2,1 miliardi di euro. Un’operazione che, al momento, detiene il primato assoluto per valore tra i deal del 2015. Ma il fondo, fra le altre cose, ha anche rilevato nel luglio scorso il controllo di Acetum, produttore di aceto balsamico di Modena noto a livello mondiale. Il valore del deal sarebbe vicino ai 200 milioni di euro.
Mentre 21 investimenti, che ha in pancia fra le altre una quota di Sirti e di PittaRosso, di recente ha rilevato la maggioranza del gruppo Poligof di Lodi, società produttrice di film plastici traspirabili e filtri, con circa 100 milioni di ricavi e un margine lordo attorno all’8%, e ha raccolto 100 milioni nel nuovo fondo, 21 Concordia, per investimenti in Polonia.
Quanto a Charme, il fondo della famiglia Montezemolo, a gennaio aveva varato Charme III, terzo di una serie di fondi partita nel 2013, che in prima battuta aveva raccolto 400 milioni di euro, ben oltre l’obiettivo iniziale 250 milioni.
Tornando alla ricerca, questo boom della raccolta, spiega Innocenzo Cipolletta (foto a destra), presidente di Aifi, è giustificato dal fatto che con «la ripresa economica e un mercato che non offre rendimenti»; di conseguenza, gli investitori si orientano verso asset class più rischiose, come il private equity, ma che garantiscono una remunerazione più elevata.

Interessante il dato sulla raccolta di origine estera, pari al 43% del totale, ovvero 571 milioni. «A fine anno», ha commentato Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, «dovremmo arrivare a quasi 1 miliardo di capitali arrivati dall’estero», in linea con il 2014, anno in cui, però, aveva influito la raccolta del Fondo Strategico Italiano (Fsi).
Stenta a decollare il mercato del private debt: appena 40 milioni raccolti nel semestre.
Guardando alla tipologia degli investimenti, come di consueto elevato il numero delle operazioni di early stage (53), ma basso l’ammontare (20 milioni), risultato del nanismo di cui storicamente soffre il venture capital italiano. Anomalo il dato sulle operazioni di replacement (21 per 359 milioni), conseguenza della strategia di spin-off di Intesa Sanpaolo.
Bene, poi, i disinvestimenti, 92 in numero (+46%) per 1,886 miliardi (+116%).
Guardando alla tipologia delle exit, la gran parte è rappresentata dalla vendita ad altri operatori finanziari (40%) e a soggetti industriali (34%), mentre ferme restano le Ipo (8%).
Le prospettive per l’intero anno sono positive. «Nel secondo semestre sono già state concluse o sono in fase di chiusura diverse operazioni, anche grandi», ha spiegato Gervasoni.