Il rischio recessione? C’è e viene dal credito al consumo

Dal 2013 l’economia mondiale sembra essere ritornata sulla strada della crescita, con gli Stati Uniti che hanno registrato un aumento del pil del 2,3% nel primo trimestre del 2018, sopra le attese degli analisti (+2%) e la liquidità sul mercato arrivata a oltre 3,6 triliardi di dollari. Ma come si suol dire, non è tutto oro ciò che luccica. In questo particolare caso il detto sembra descrivere molto bene la situazione.

Stando infatti a quanto spiegato da Maurizio Novelli (nella foto), economista e gestore del Lemanik Global Strategy Fund, ci sono due elementi critici che giocano a sfavore delle nostre economie – facendo confluire le risorse verso i mercati emergenti – e provengono dalla Cina, alle prese con un debito che ha raggiunto il 370% del Pil, ma soprattutto dagli Stati Uniti.

Bolla a stelle e strisce

Il problema sta proprio nella natura della crescita. «Se nei cicli economici del passato – ha spiegato Novelli in un incontro organizzato a Milano – lo sviluppo economico si basava su investimenti espansivi e focalizzati in determinati settori, ad esempio la tecnologia nel 2000 o il real estate nel 2007-2008, oggi la crescita degli Usa è sempre più correlata al debito privato, quindi al credito al consumo».

Il tema però non è il debito in sé, ma la sua sostenibilità. «Per crescere – ha osservato – ogni economia inserisce leverage nel sistema, la questione è dove viene inserito: se si investe per la crescita produttiva, le risorse impiegate aumentano i redditi, consentendo di ripagare il debito e la crisi arriva quando c’è un eccesso di produttività. Al contrario, se si fa solo credito al consumo e i redditi ristagnano, allora la crisi può arrivare perché queste spese diventano insostenibili».

Per Novelli, il credito al consumo ha raggiunto livelli pericolosi, che dovrebbero far scattare un campanello d’allarme. Attualmente circa l’80% del Pil Usa è sostenuto dai consumi, un terzo dei quali (27%) è a debito, stando ai dati della Federal Reserve. In pratica, oltre il 20% del Pil americano dipende da una domanda che si appoggia sul credito al consumo che è cresciuto, dal 2008 a oggi, del 45% arrivando a quota 3,88 triliardi di dollari.

Inoltre oggi il 27% dei consumatori americani viene classificato subprime (dati al dicembre 2017), una quota più alta del 2006, quando i mutuatari considerati ad alto rischio rappresentavano il 23,5%. A questo si aggiunge il fatto che attualmente il costo di questo debito privato è vicino al massimo del 2007, pari a circa il 12%, ma il prezzo del denaro è più basso del 50% rispetto al 2008 e i redditi sono cresciuti in misura inferiore. Di conseguenza, «basta un piccolo rialzo dei tassi a rendere il debito insostenibile». Nel complesso il debito pubblico e privato americano sul Pil è passato dal 300% del 2007 al 375% di oggi.
La situazione si riflette anche sul mercato. «Nel 2016 nel mondo – spiega Novelli –  il 45% dei bond è credito speculativo, cioè con rating inferiore al B». Nel 2008 la quota era del 15%.

 

L’illusione della liquidità

Molti penseranno che il mercato oggi è molto liquido, come può il sistema non reggere in caso di necessità? Per Novelli la risposta è semplice. Il credito al consumo, spiega, è «pro ciclico, non dipende cioè solo dai tassi di interesse ma è legato alla propensione al rischio degli intermediari che lo erogano». Propensione che, tra l’altro, è cresciuta proprio a causa dei tassi bassi: «Per un 2% oggi si è disposti a investire in qualsiasi cosa», osserva.

Finché dunque ci saranno soggetti sul mercato disposti a dare credito anche ad alto rischio, ci sarà liquidità e il sistema andrà avanti. Tuttavia, «non appena il rischio diminuirà, le banche e gli investitori venderanno i propri bond togliendo proprio quella liquidità che oggi manda avanti il mercato».

 

Il rischio per il retail

Stavolta però a pagarne le conseguenze, sostiene l’esperto, saranno i privati attraverso i fondi di investimento…

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Noemi

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