Crescono le banche cinesi mentre le italiane riducono gli npl. La ricerca Mediobanca
Più redditività e meno crediti in sofferenza e derivati, ma una maggiore esposizione ai titoli sovrani. Sono queste, stando all’aggiornamento annuale dell’indagine sulle principali Banche Internazionali dell’Area Studi Mediobanca.
Lo studio analizza i risultati dei 67 maggiori gruppi bancari internazionali negli ultimi 10 anni, dal 2007 al 2018: ventotto hanno sede in Europa, quindici in Giappone e altri quattordici negli Stati Uniti. La Cina è presente con le dieci maggiori banche e proprio quelle cinesi sono le banche con l’attivo più alto nel mondo finanziario.
Delle cinque maggiori in assoluto, quattro sono del paese asiatico, con in testa Industrial and commercial Bank of China, che nel 2017 ha registrato un attivo di 3.343 miliardi di euro, 250 in più rispetto all’anno precedente. Seconda e terza China Construction Bank e Agricultural Bank of China. Costretto a inseguire il gigante americano JP Morgan Chase che scivola dalla seconda alla quarta posizione (2.532 miliardi). Chiude la top 5 un’altra cinese, la Bank of China (2.494 miliardi), a conferma del predominio orientale. La prima banca europea, la britannica HSBC (2.193 miliardi) è al settimo posto, preceduta dalla prima giapponese, la Mitsubishi (2.273 miliardi). Per quanto riguarda gli istituti italiani Unicredit è 22esima (854 miliardi), Intesa Sanpaolo 25esima (830 miliardi), in forte progresso dalla 37esima posizione del 2016 grazie anche all’acquisizione di assets delle banche venete.
Il confronto con gli Usa
In generale, la situazione degli istituti europei migliora. Nel 2017 i ricavi sono cresciuti sia in Europa (+1,7%) che negli USA (+3,1%) dove il margine d’interesse è stato molto dinamico (+5,4%) mentre ha ristagnato in Europa. Le commissioni nette risultano invece in aumento in ambo le aree (+4,3% in Europa, +5,2% in Usa), insieme con il risultato di negoziazione (+22,2% in Europa, +7,2% in Usa). I costi operativi sono in leggero calo in Europa (-0,2%) e in espansione negli Usa (+2,7%). Un dato molto positivo per gli istituti europei riguarda la drastica caduta delle svalutazione dei crediti (-34,6%) che appaiono in rialzo negli Usa (+0,7%).
Per la prima volta dal 2010 il saldo delle voci straordinarie in Europa è positivo (+ € 0,6 miliardi) e pareggia il saldo statunitense, in positivo dal 2014. La riforma fiscale Usa del 2017 ha avuto diverse conseguenze, causando oneri complessivi per 8,9 miliardi in Europa e per 21,7 mld di Usd negli Stati Uniti. Ciò ha condizionando il risultato netto, raddoppiato in Europa (da 34,7 a 69,9 miliardi) e diminuito del 21,6% per le banche statunitensi.
I costi operativi, comunque più alti in Europa che negli Usa, sono in calo nel Vecchio continente (-0,2%) e in crescita oltreoceano (+2,7%). Migliora il quadro anche la situazione dei crediti svalutati in Europa, scesi del 34,6%, mentre aumentano dello 0,7% quelli degli Stati Uniti.
Nonostante questi miglioramenti, il totale del risultato netto europeo rimane nettamente inferiore a quello statunitense (410,9 contro 625,6 miliardi di euro). Questo sia a causa dei maggiori costi operativi sia per la minore redditività. Unicredit e Intesa Sp possono vantare un Roe superiore alla media europea.
Da entrambe le parti dell’Atlantico rimane poi l’ombra degli Npl e dei derivati. Per tutti e due, la situazione è in netto miglioramento.
I crediti deteriorati diminuiscono in Europa dell’8,4% rispetto all’anno precedente, per quanto nelle cinque maggiori italiane banche la componente rispetto al numero totale di crediti verso i clienti rimane del 14,8% (negli Stati Uniti del 2,4%), oltre la soglia del 10% indicata dalla Bce.
In fatto di derivati, invece, il taglio in bilancio è maggiore negli Stati Uniti: per gli istituti americani la componente in bilancio tra il 2015 e il 2017 è diminuita del 38,5%, in Europa solo del 26,6%.
Nel confronto pesa anche l’effetto della riforma fiscale proposta dall’amministrazione Trump: la norma entrerà a pieno regime solo quest’anno, ma una parte dell’impatto si misura già nel 2017. In particolare, sugli istituti europei che hanno attività oltreoceano la riforma peserà per 8,9 miliardi di euro, contro i 21,7 miliardi di dollari di impattato per le banche americane.