Utp, tutto pronto per la grande abbuffata
di massimo gaia
Si chiamano unlikely to pay (utp), una volta noti come incagli, e costituiscono lo snodo fondamentale del sistema economico-finanziario italiano, la leva che potrebbe consentire alle banche di ripulire definitivamente i bilanci, senza rinunciare al compito di erogare finanza alle imprese. Il rischio, però, è che le esigenze delle banche – che hanno il fiato sul collo di Bce e Bankitalia – non siano conciliabili con le necessità delle aziende. Il pericolo è che economia reale e finanza viaggino su binari paralleli. Su questo tavolo, insomma, si gioca un pezzo fondamentale del futuro del Paese.
Secondo i calcoli di PwC, basati sul rapporto di Bankitalia “Banche e istituzioni finanziarie: condizioni e rischiosità del credito per settori e territori”, alla fine dell’anno scorso le non performing exposures (npe) del sistema bancario italiano ammontavano a 180 miliardi (in termini di gross book value), in netto calo rispetto ai 264 miliardi di un anno prima. Il dato complessivo delle npe si articola in 97 miliardi di npl (erano 165 nel 2017), 79 miliardi di utp (94 un anno prima) e 4 miliardi di past due. Guardando al net book value, a fine 2018 era pari a 51 miliardi per gli utp e 33 miliardi per gli npl. Gli utp sui bilanci delle banche sono saliti, in termini di cagr, del 21% tra il 2008 e il 2015, arrivando al picco di 131 miliardi nel 2014, per poi scendere del 15% tra il 2015 e il 2018. Il calo è stato sensibile, ma nettamente più contenuto rispetto a quello degli npl, che erano arrivati a 200 miliardi nel 2015-2016 e ora sono più che dimezzati.
Guardando alla media delle prime dieci banche italiane, PwC calcola al 43% il rapporto tra valore lordo degli utp e npe ratio, l’utp ratio è pari al 4,6% e il tasso di copertura degli utp ammonta al 36%.
Ma chi ha in mano gli incagli? Analizzando comunicazioni al mercato e presentazioni agli analisti, PwC ritiene che a Unicredit facciano capo 16,2 miliardi (21% del totale), a Intesa Sanpaolo 14,3 miliardi (18%) e a Banco Bpm 7,8 miliardi (10%); in sostanza, i primi tre gruppi concentrano il 49% degli utp. Seguono Mps (8,1 miliardi, 10% del totale), Ubi (4,2 miliardi, 5%) e via via tutti gli altri. In termini di rapporto tra utp e npe il dato più alto è di Banco Bpm (66%).
Dato che la Bce equipara utp e npl, inseriti nella categoria delle npe, le banche sono costrette a cederli. L’opera di pulizia, tra il 2015 e oggi, si è focalizzata sulle sofferenze, dismesse secondo una logica liquidatoria. L’anno scorso ci sono state transazioni di npe per 84 miliardi, di cui solo 2,5 miliardi di utp. Lo stock di npl è calato a livelli fisiologici (per quanto ancora più alti rispetto al 2008, anno d’inizio della crisi finanziaria, prima, ed economica, poi): restano pochi portafogli, perlopiù piccoli e medi, in vendita. Quest’anno, al momento, sono passati di mano npe per appena 4 miliardi; di questi, soltanto un deal comprendeva utp (si tratta di un portafoglio misto), ovvero i crediti ceduti da Banca del Fucino a Sga (314 milioni).
Finita l’abbuffata sugli npl, però, la tavola pare apparecchiata per passare alla pietanza utp. E la pipeline di operazioni si va riempiendo. Già avviati deal per 9,3 miliardi (gross book value), ovvero Sandokan 2 (2 miliardi, venditore UniCredit), Hydra (900 milioni, Carige), Papa 2 (500 milioni, Mps), Quebec 2 (450 milioni, Mps) e Lima 2 (130 milioni, Mps). L’istituto senese, inoltre, avrebbe già avviato le operazioni per cedere un altro portafoglio da 300 milioni. E sul mercato si vocifera di una maxi-operazione tra Mps e Sga, con la banca guidata da Marco Morelli che cederebbe l’intero stock di utp ancora a bilancio.
Ma la madre di tutte le transazioni sugli utp potrebbe essere l’operazione da 10 miliardi complessivi che Intesa Sanpaolo sta trattando con Prelios. Financecommunity.it ne ha scritto il 19 giugno scorso (leggi qui la notizia). La due diligence del gruppo guidato da Riccardo Serrini è alle battute finali. Oltre 6 miliardi, stando alle indiscrezioni, resteranno sul bilancio della banca guidata da Carlo Messina, ma il deal segnerà (in termini di modalità e tempi della due diligence, interazione tra le parti, costruzione della struttura per il recupero e naturalmente valutazioni dei crediti) la pista che con ogni probabilità verrà battuta dagli altri istituti. Del resto, Intesa Sanpaolo ha precorso i tempi sulla cessione della piattaforma di gestione degli npl, scegliendo Intrum come partner. L’impressione del mercato è che qualcosa di simile accadrà sul fronte degli utp.
Pier Paolo Masenza, financial services leader di PwC, spiega a MAG che il combinato disposto del peso degli utp sui bilanci delle banche, i valori netti a cui sono iscritti e le calendar provisioning della Bce «porterà a pensare in maniera propositiva a vendere i crediti classificati come utp, creerà inevitabilmente un mercato». Inoltre, se l’operazione Intesa Sanpaolo-Prelios andrà in porto, «potrebbe diventare una sorta di benchmark». Detto questo, «siamo ben consci della difficoltà di gestire il credito utp, difficoltà che si vedono nei numeri abbastanza scarni delle transazioni completate sinora».
Il nodo è che gli incagli sono diversi dalle sofferenze, sono crediti ancora vivi…
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