Aifi, il mercato del private debt italiano vale 1,2 miliardi di euro

È nato in ritardo e cresce lentamente, ma il mercato del private debt italiano comincia a farsi notare e a produrre i primi frutti. Stando a quanto rilevato da Aifi nella sua prima analisi sul mercato del private debt, dal 2013 ai primi mesi del 2016 il settore ha raccolto 1,2 miliardi di euro, dei quali 200 milioni solo nei primi mesi di questo anno con l’attività di tre operatori. Tutte risorse destinate a progetti di investimento e sviluppo per le piccole e medie imprese.

Il mercato del private debt include operazioni di sottoscrizione di obbligazioni e cambiali finanziarie, compresi anche i minibond, ma anche di strumenti ibridi come mezzanine e obbligazioni convertibili. A livello europeo, questo mercato vale 60 miliardi di dollari – contro i 117,4 del Nord America – trainato principalmente da Paesi come la Germania e la Francia.

In Italia ci si aspetta che il settore continui a crescere. E se tutti i 26 operatori attivi in questo campo, tra fondi specializzati e private equity, dovessero raccogliere quanto previsto, si arriverebbe a quota 5,5 miliardi di euro. Uno scenario plausibile considerando che, sottolinea Aifi, altri sette operatori sono in fase di chiusura, dei quali cinque entro i due o tre mesi e 2 entro l’estate.

Quanto al volume, nel biennio 2014-2015 sono stati 406 gli investimenti complessivi, principalmente in obbligazioni (89%) con una durata media di poco inferiore ai 6 anni, un rendimento medio del 5% e un valore tra i 5 e 10 milioni di euro (69%), che è il classico taglio delle piccole e medie imprese. Nello specifico infatti nel periodo 2012-2015 il valore nominale totale delle emissioni di minibond è cresciuto molto e ha raggiunto i 7,2 miliardi di euro. Complessivamente, le emissioni censite dall’Osservatorio del Politecnico di Milano sono state 78. 

«Possiamo finalmente affermare di aver avviato anche in Italia un mercato del private debt – ha commentato il presidente dell’Aifi Innocenzo Cipolletta -. La strada verso la creazione e la strutturazione di un sistema obbligazionario per le pmi è in una certa misura obbligata vista la situazione di difficoltà in cui versano gli istituti bancari, perché anche se il sistema bancario è ancora la fonte di finanziamento principale per le pmi, le aziende stanno iniziando ad affacciarsi in questo settore, nonostante i tassi così bassi».  

Questo, per Cipolletta, non potrà che «aiutare l’intero sistema imprenditoriale a strutturarsi, a organizzarsi, ad avere maggiore trasparenza e capacità di controllo», e quindi «crescere ulteriormente». Tra le altre sfide, ha evidenziato, «ci sarà anche quella di attrarre in Italia i credit fund, sia nazionali sia internazionali, che iniziano a guardare con interesse al nostro Paese». 

Tornando ai dati, sempre nel periodo 2013-2015, il 96% della raccolta proviene da investitori istituzionali domestici, mentre il 4% dall’estero. Nella tipologia della fonte, il 49% del capitale è arrivato dalle banche, il 20% dalle assicurazioni e il 16% da fondi pensione e casse di previdenza. «Quello della raccolta è uno dei temi più delicati – ha aggiunto Stefano Romiti di Antares-. Spesso si fa molta fatica a portare a casa un vero commitment perché il mercato è ancora poco maturo». In ogni caso, ha aggiunto, «dai dati emerge come la risposta delle banche, sia commerciali che di investimento, sia stata molto positiva», un po’ meno quella «delle casse di previdenza e dei fondi pensione». Soggetti, questi, su cui Aifi e gli intermediari stanno lavorando per coinvolgeli maggiormente: «È in corso un dialogo con questi operatori – ha spiegato Cipolletta – ad esempio per fornire loro un supporto, da parte ad esempio degli operatori del Fondo Italiano d’Investimento, nella due diligence  per agevolare la loro partecipazione».

Proprio il fondo di fondi gestito da Fondo Italiano d’Investimento sgr è uno degli attori più attivi, registrando sottoscrizioni, nei primi tre investimenti in altrettanti fondi specializzati, per un ammontare complessivo di 90 milioni di euro. Si tratta di Anthilia BIT Parallel Fund, gestito da Anthilia sgr; Antares AZ1, gestito da Futurimpresa sgr (gruppo Azimut); e Italian Hybrid Capital Fund, gestito da RiverRock European Capital Partners. «Senza il supporto del Fondo italiano oggi non saremmo qui», ha affermato Romiti.

Un dato positivo, ha poi aggiunto Romiti, è quello relativo all’interesse da parte delle aziende: «Se prima si affacciavano a questo mercato solo imprese che non avevano accesso al canale bancario, adesso arrivano aziende con progetti di sviluppo ben definiti». Ma con i tassi così bassi qual è la convenienza? «Le imprese hanno capito che la diversificazione rispetto al solo credito bancario può essere vantaggioso – ha aggiunto Giovanni Landi di Anthilia sgr – In primo luogo perché è meno labile del finanziamento bancario che può venir meno, come è successo, in situazioni di crisi di sistema. D’altro canto anche per le banche, che sono i primi sottoscrittori dei nostri fondi, rappresenta un completamento della loro offerta verso il cliente».

A livello geografico, come anche accade nel settore del private equity e del venture capital, la maggior parte delle operazioni è concentrata nel nord d’Italia (83%) seguito dal centro Italia (12%); in coda troviamo il sud e le isole con il 5%. Con riferimento alle attività delle aziende target, il 14% opera nel settore dei beni e servizi industriali, il 12% nell’energia & utilities e il 10% nell’alimentare, così come nell’elettronica.

Per quanto riguarda la dimensione delle società, il 60% delle target ha oltre 250 dipendenti, mentre il 40% è costituito da pmi. Le imprese con meno di 50 milioni di euro di fatturato rappresentano il 21% del totale, rispetto al 69% di aziende con un fatturato maggiore.

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