Aifi: nel semestre investiti 4 miliardi in private capital. La metà sono club deal e family office

In questi primi sei mesi del 2019, se da un lato il private equity “tradizionale”, sotto forma di sgr e fondi chiusi, sconta le difficoltà di un mercato con pochi big deal e incertezze a livello internazionale, dall’altro il private capital nel suo complesso, inclusi club deal e family office, registra numeri più che incoraggianti.

Stando infatti alle ultime rilevazioni di Aifi, l’associazione del private equity, private debt e venture capital, in collaborazione con PwC Deals, nel primo semestre di quest’anno private equity e venture capital hanno registrato investimenti in calo del 12% rispetto al 30 giugno 2018, a 2,5 miliardi di euro  (rispetto ai 2,9 miliardi dell’anno scorso) per 166 operazioni (+4%). Se nella ricerca si includono però anche gli investimenti da parte di club deal, i co-investimenti fatti da player diversi come i family office e parte del debito stanziato per le operazioni di leveraged buy-out, l’ammontare investito supera i 4 miliardi di euro. Le forme “alternative” di investimento, oltre ai fondi chiusi, valgono dunque almeno la metà delle risorse che arrivano alle imprese, a riprova di un mercato, quello del priva equity, alle prese con un’evoluzione significativa e di un arricchimento in termini di offerta per le imprese.

Mercato ideale
Dai 2,5 miliardi dei fondi “tradizionali”, si escludono i large e mega deal (operazioni caratterizzate da un equity investito superiore ai 150 milioni di euro), l’ammontare risulta pari a 1,9 miliardi, in crescita del 39% rispetto agli 1,4 miliardi del primo semestre del 2018, segno di una maggiore vivacità del mid-cap. Non a caso, rivela sempre Aifi, dal punto di vista delle dimensioni delle imprese, prevalgono ancora una volta le aziende con meno di 50 milioni di fatturato, che rappresentano il 77% del numero totale (75% nel primo semestre del 2018).

Il mercato italiano, ha osservato Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi, “è fatto di imprese a produttività elevata ed è l’ideale per il private equity, soprattutto in questi anni in cui l’attività del sistema bancario si è ridotta”. Tuttavia, ha osservato, “è considerato ancora un mercato speculativo, sopratutto dai regolatori, pur a fronte di rendimenti alti del 14- 15% costanti nel tempo. È il momento che a livello politico si faccia qualcosa per favorire questo tipo di investimenti”.

Quanto alla tipologia, prevale il segmento early stage (investimenti in imprese nella prima fase di ciclo di vita, seed, startup, later stage) in crescita del 7% in ammontare (103 milioni di euro) per  72 deal, il buyout (acquisizioni di quote di maggioranza o totalitarie) per 1,6 miliardi e 59 deal mentre calano gli investimenti in infrastrutture (408 milioni di euro, -64% per otto operazioni). Il turnaround (operazioni in imprese in fase di difficoltà finanziaria) ha segnato un ammontare pari a 74 milioni (da 17 milioni) per tre deal (da due). Infine, i replacement (investimenti di minoranza in sostituzione di uno o più soci) sono tre per un ammontare di 87 milioni (erano tre per 78 milioni nel primo semestre 2018).

C’è da dire che il trend a ribasso del private equity è globale. Nel mondo le operazioni sono calate del 22% a 1.200 per il 47% in meno di ammontare (75 miliardi di dollari) mentre in Europa le operazioni si sono quasi dimezzate (- 44% a 386) per 25 miliardi di dollari (-22%). La sola Uk ha registrato il 40% in meno di operazioni, probabilmente come effetto negativo della Brexit.

Più ottimiste però le previsioni di Aifi per il secondo semestre. L’associazione ha contato 40 operazioni annunciate tra luglio e agosto, +67% rispetto alle 24 del 2018. Fra queste ci sono big deal come Forgital, Doc Generici, Rino Mastrotto e aste come Telepass.

Raccolta in calo
I dati di Aifi fotografano inoltre una raccolta debole pari a 435 milioni di euro (- 77% rispetto al primo semestre del 2018) da parte di 14 operatori (-22%). Di questi, 410 milioni sono stati raccolti sul mercato, -75% rispetto agli 1,7 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente. Gli investitori internazionali hanno pesato sulla raccolta di mercato per il 27%. Le fonti principali della raccolta sono: settore pubblico e fondi sovrani per il 31% (“soprattutto il Fei che ha finanziato alcuni fondi di venture capital”, ha spiegato il direttore generale Anna Gervasoni in conferenza stampa), fondi pensione e casse per il  18% e investitori individuali e family office, 18%. Questi valori al ribasso, spiegano da Aifi, “sono legati all’assenza di operatori pubblici di fondi di fondi che in passato hanno influito molto sulla raccolta”. Anche l’apporto dagli operatori esteri è basso a causa anche del “clima di incertezza a livello internazionale che non favorisce la nascita di nuove iniziative”, ha detto Cipolletta.

Quanto ai disinvestimenti, nel corso del primo semestre del 2019 ne sono stati realizzati 66, in crescita del 12% rispetto al primo semestre 2018, dove erano 59. L’ammontare disinvestito, calcolato al costo storico di acquisto, si è attestato a 886 milioni di euro, contro gli 1,1 miliardi del primo semestre del 2018 (-20%). Nella distribuzione dei disinvestimenti per tipologia, nel primo semestre ha prevalso la vendita a soggetti industriali, 28, pari al 42% del numero totale, mentre nell’ammontare ha prevalso la cessione tramite ipo/post ipo con il 48% del totale pari a 425 milioni. Il dato è però “viziato” da un’unica quotazione, cioè quella di Nexi, dal valore – da sola – di 2 miliardi.

Venture capital, ammontare in crescita
Guardando nello specifico al venture capital, qui ci sono segnali di crescita, se non altro nell’ammontare investito: 103 milioni, il 7% in più del semestre precedente, per 72 operazioni (-10%). Qui, ha ribadito Cipolletta, “Cassa depositi e prestiti si sta muovendo in modo positivo. Staremo a vedere cosa succederà”. Sicuramente “anche il nuovo governo può supportare il mercato attraverso misure che, come quelle auspicate nel venture capital, permettano il moltiplicarsi di operatori e di investimenti e vadano a favore dell’economia reale”. In particolare, ha suggerito, “occorrerebbe favorire gli investimenti specifici, inserendo adeguati incentivi fiscali riservati a chi investe in questi strumenti e non a fondi generali”.

 

Noemi

SHARE