Lobbying, orgoglio e pregiudizio

In Italia le parole lobby, lobbysta, lobbying scontano un pregiudizio storico. Vengono spesso usate con imbarazzo. Anche perché spesso evocano nella mente dei più attività considerate borderline, all’incrocio tra politica, economia e ambienti poco o per nulla trasparenti. In realtà, il lobbismo (o advocacy o public affairs) nasce nel mondo anglosassone con l’obiettivo diametralmente opposto alla scarsa trasparenza: si tratta di rendere palesi gli interessi e coloro che se ne fanno interpreti. Viceversa, nel nostro Paese i portatori di interessi sono stati tradizionalmente associati ai faccendieri del mondo di mezzo, personaggi equivoci che si trovano a proprio agio nell’ombra. Un retaggio che ha prodotto i suoi riflessi anche sul piano normativo.

In Italia è stato individuato persino un reato specifico, traffico illecito di influenze (decreto anticorruzione del dicembre 2018), dai contorni labili, indefiniti, e perciò pericoloso: qual è il confine tra l’attività di lobbying e l’influenza illecita?
Nel 2017 la Camera dei deputati ha istituto il registro dei rappresentati di interesse. Per quanto meritevole di aver gettato il sasso nell’“acquitrino”, l’iniziativa a detta di tanti è rimasta monca. Innanzitutto, non c’è un omologo al Senato (!). In secondo luogo, il numero delle strutture accreditate a oggi, ovvero 233, pare esiguo, per non dire ridicolo, rispetto alla quantità di lobbisti effettivamente esistenti.

A questo si aggiunga che le schede dei portatori di interessi sono scarne. E le relazioni annuali, che dovrebbero essere obbligatorie, o non ci sono o sono sottilissime e sostanzialmente prive di informazioni, tanto da indurre l’ufficio di presidenza della Camera a sanzionare le strutture inadempienti.

Fabio Bistoncini, fondatore e partner di FB & Associati, è considerato il decano della professione in Italia (il suo blog, Sporco Lobbista, è un punto di riferimento). Bistoncini spiega a MAG che «il compito del lobbista è fare in modo che all’interno del dibattito pubblico siano rappresentati gli interessi dei propri clienti. Questa attività viene svolta in qualsiasi democrazia».
Bistoncini dice di aver visto la professione cambiare nel corso degli anni «perché è cambiata la società». E stanno cambiando gli strumenti attraverso cui agiscono i portatori di interessi: «L’attività di lobbying diretta resterà sempre», argomenta il fondatore di FB & Associati. “Ma la capacità di influenzare l’opinione pubblica ora è decisiva: si fa più comunicazione/advocacy che lobbying”.
Elia Bisogni, avvocato, membro del direttivo dell’Osservatorio imprese e consumatori (Oic), spiega che «è un’attività arrivata in ritardo in Italia». Per meglio dire, l’attività si è sempre svolta, ma «è stata regolamentata solo recentemente». L’iscrizione nel registro consente ai lobbysti di accedere in modo permanente alla Camera, «di stazionare nelle sale di rappresentanza».
Però, prosegue Bisogni, le istituzioni non creano occasioni formali per mettere in contatto portatori d’interesse e parlamentari: sta ai singoli fare anticamera e aspettare che passi l’interlocutore desiderato. «Ci vorrebbe, invece, un cronoprogramma di incontri, anche differenziato per categoria», dice Bisogni. Istituzionalizzare quanto più possibile l’attività di advocacy è «nell’interesse del cittadino, che viene informato». Marco Sonsini, partner di Telos – Analisi e Strategie, non vuole nascondersi dietro «a una cortina fumogena» di termini vaghi e mutuati dall’inglese: «Facciamo i lobbisti e non ci vergogniamo di esserlo».

Ma chi sono i lobbisti tricolori? Se si scorre l’elenco dei 233 nomi in ordine alfabetico si va dall’Associazione Europea Consumatori Indipendenti (Aeci) a Ezio Stellato. Nel mezzo, si trovano associazioni di broker assicurativi ed energetici, editori, digital players, armatori, banche popolari, società di gestione del risparmio (Assogestioni è rappresentata da Alessia Di Capua e Massimo Menchini), organizzatori di concerti, proprietari immobiliari, produttori di automobili, emittenti radiofoniche, associazioni di volontariato e culturali, aziende meccaniche, agenzie viaggi, ristoratori, arredatori, case discografiche, costruttori, animalisti, Legacoop e Confcooperative, varie associazioni di consumatori, aziende attive nelle spedizioni, vinificatori, petrolieri, l’Associazione nazionale forense, gioiellieri, consulenti tributari e tributaristi, geometri, ispettori del lavoro, revisori legali, Emergency, l’associazione delle colf, l’Associazione bancaria italiana, la Cgil, Confindustria e varie sigle che si contendono la rappresentanza degli imprenditori, agricoltori, medici, chimici, scrittori, agenti immobiliari, utilities, forestali, commercialisti, aziende che operano nel riciclo dei rifiuti e motociclisti. Ci sono le imprese: tra le altre, 3M, Acea, Alitalia, Almaviva, Anas, Basf, Bayer, Bombardier, British American Tobacco, Cdp, Cerved, Cir, Cnh Industrial, Enav, Enel, Eni, Ferrovie dello Stato, Fincantieri, Italgas, Leonardo, Mbda Italia (rappresentata da Giuseppe Cossiga, direttore delle relazioni istituzionali, nonché figlio dell’ex presidente della repubblica), Nexi, Novartis, Open Fiber, Philip Morris, Poste Italiane, Rai, Sky, Terna, Tim, Unipol, Vodafone, Wind Tre e Bracco (che si fa rappresentare da BDL Lobbying, società fondata da Maurizio Beretta).
Non mancano le associazioni dai nomi curiosi, come Italia Futura Alto Adige Suedtirol, SicilEsco, La Caramella Buona onlus e Riparte il futuro.
L’elenco vede diverse società di comunicazione, che rappresentano aziende e associazioni (Mailander, Community, Hill+Knowlton, Reti, Sec e Homina). E poi le società che hanno l’attività di lobbying e consulenza strategica come core business: Cattaneo Zanetto & Co., InRete, FB & Associati, Utopia, Open Gate, Nomos – centro studi parlamentari, Comin and Partners, Apco Worldwide e Telos A&S. C’è un elenco di persone fisiche, che rappresentano associazioni oppure interessi vari (si va dalle società energetiche ai titolari di licenze balneari, dalla tutela dei tratturi al contrasto del bullismo). E in questo elenco figurano diversi avvocati.

Flavio Arzarello, public affairs senior analyst di Reti, nota che «il nostro lavoro è aiutare le aziende a raccontare i propri interessi in una luce che sia adatta ai policymakers. È un servizio anche per chi fa le leggi: si tratta di rendere potabili argomenti che rischiano di essere troppo tecnici». Il problema, almeno sino a oggi, prosegue Arzarello, è che «il termine lobbista è stato usato in senso negativo, per indicare altro». Ma la strada verso il «salto culturale» è stata tracciata: «C’è un grado di professionalità sempre più alto, ci sono corsi universitari e master sul tema dell’advocacy». Master in public affairs e comunicazione istituzionale si trovano nelle principali università (Bocconi, Luiss, Lumsa, Iulm, Tor Vergata); inoltre, c’è un corso della business school del Sole 24 Ore.
Il bravo lobbista, secondo Arzarello, incarna «un insieme di capacità: c’è la conoscenza del sistema decisionale, l’abilità comunicativa e quella più importante, per quanto poco codificabile, ovvero la capacità di capire il business del cliente e gli aspetti legislativi che possono impattarlo».
L’obiettivo, ovviamente, è influenzare – in modo trasparente – l’attività del legislatore. Secondo gli esperti di advocacy, le lobby in assoluto più attive sono quelle legate al settore farmaceutico, seguite dall’alimentare, dalle società energetiche e dai grandi contribuenti fiscali (tabacco e scommesse), soggetti, questi ultimi, che vivono la condizione schizofrenica di essere non di rado additati come cattivi dalla politica, ma di godere dei privilegi di chi ogni anno sborsa miliardi di imposte nelle casse dello Stato…

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Noemi

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