Massari (AIPB): «Serve meno rigidità per investire in asset illiquidi»

Da un lato un contesto finanziario caratterizzato da tassi ai minimi e un’elevata volatilità. Dall’altro la pressione, da più parti, a veicolare parte della grande quantità di risparmio privato presente in Italia verso l’economia reale. In mezzo, fra l’incudine e il martello, sta il private banking, un’industria che sta cercando di adattarsi a questo scenario finanziario e di andare incontro alle esigenze di rendimento dei clienti e per questo sta puntando su nuove asset class. Fra questi l’obiettivo principale, almeno nelle intenzioni, sono gli strumenti illiquidi, dall’arte al private equity. Promuovere l’investimento in questi prodotti è uno dei punti al centro dell’attività dell’Associazione italiana private banking (Aipb), che proprio lo scorso mese ha rinnovato il consiglio nominando Paolo Langè di Cordusio SIM quale nuovo presidente. MAG ne ha parlato con Antonella Massari (nella foto), confermata segretario generale fino al 2022. «Favorire gli investimenti negli strumenti illiquidi è una delle attività che intendiamo portare avanti, anche se non è semplice», spiega.

Le cifre in ballo sono enormi. Al 2018 i 122 gli operatori finanziari specializzati nel private banking attivi gestivano 832,2 miliardi di euro, cioè oltre un milione di clienti, stando ai dati di Magstat. La quota di mercato del private banking è salita nell’ultimo triennio dal 25% al 27% del totale delle attività finanziarie delle famiglie. Tuttavia, ancora pochissime di queste risorse sono veicolate al di là dei mercati finanziari.

A giugno 2018, ha rilevato l’associazione, la quota di fondi alternativi nei patrimoni private non superava lo 0,2% degli asset in gestione, per un valore totale di 1,1 miliardo di euro, praticamente lo stesso di due anni prima. Nel resto d’Europa la stessa percentuale di illiquidi raggiunge lo 0,9% e in Usa il 3,4%. Poiché gli alternativi sono anche lo strumento per finanziare le piccole e medie imprese, che tipicamente non sono quotate, raggiungere il 3,4% di investimenti significherebbe portare sul mercato circa 25 miliardi di risorse.

Dottoressa Massari, perché a quota dei prodotti alternativi presente nei portafogli della clientela private è così contenuta?
Le cause sono molteplici e possono riscontrarsi sia lato offerta sia lato domanda. Per quanto riguarda l’offerta, oggi questi strumenti non sono tutti accessibili ai clienti private, in quanto la maggior parte dei prodotti vengono riservati a investitori professionali, istituzionali oppure qualificati. Inoltre, dai produttori viene stabilita una soglia d’accesso troppo elevata, ad esempio 500mila euro quando si tratta di private equity, limite che rappresenta una barriera all’ingresso e allo stesso tempo impedisce di investirvi mantenendo un corretto grado di diversificazione del portafoglio. Poi ci sono alcuni vincoli regolamentari che rendono complicata la loro distribuzione e la struttura degli strumenti in sé.

Quali?
I prodotti illiquidi sono investimenti complessi che richiedono tempi lunghi per ottenere un rendimento e l’obbligo di tenere bloccate le proprie risorse. Al momento infatti sono realizzati solo da quella clientela che, in ottica di diversificazione, non ha bisogno di liquidare in tempi brevi l’investimento. Al contrario, non sono graditi a chi è abituato a una cedola cadenzata.

Poi c’è il lato domanda… È una questione culturale?
Anche. Siamo stati sempre abituati a investire in titoli azionari e bond e fino a dieci anni fa non vi era l’esigenza di cambiare strategia. Tuttavia, al di la di questo, oggi sappiamo che il vincolo principale riguarda il basso livello di conoscenza dei prodotti di investimento da parte degli investitori e dei risparmiatori e la maggiore complessità per i banker nel proporli. Credo che per questo motivo uno dei primi passi da fare sarebbe fare più formazione.

A chi di preciso?
Ai private banker innanzitutto. Loro sono gli unici che possono avvicinare il mondo private a quello degli investimenti illiquidi, fornendo loro quel set di informazioni utili all’investimento in modo che possano trasferirli alla clientela. Questi strumentinon sono semplici, vanno spiegati. E solo il private banker può farlo, soprattutto a quella fascia di clientela più anziana che però rappresenta la parte preponderante. A loro occorre far capire, inoltre, che per ottenere un certo rendimento è necessario guardare anche al mondo illiquido.

Come si può fare?
È necessaria una maggiore collaborazione tra produttori e distributori per la messa a punto delle caratteristiche dei prodotti e delle relative documentazioni informative, a cui va aggiunto un costante impegno di tutti gli stakeholder verso un’ampia attività di divulgazione.

Secondo lei la leva fiscale potrebbe essere un altro modo per favorire questi investimenti?
Ogni beneficio fiscale che riguarda un prodotto finanziario ne ha attivato la richiesta per cui è sempre positivo. Già da qualche tempo Aipb ha sollevato questo tema.

Quale è la situazione attuale?
Dall’impegno che Aipb ha preso lo scorso anno sono nati e stati collocati strumenti con veicoli nuovi come ad esempio gli Eltif, e i nuovi Pir vanno in questa direzione. Tuttavia…

 

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