Post Brexit: per il risparmio gestito la parola chiave è flessibilità
Prudenza, sangue freddo e diversificazione. Nell’industria del risparmio gestito sono questi gli imperativi che stanno regolando l’attività degli operatori nelle settimane post- Brexit. Non potrebbe essere diversamente considerando la brusca reazione dei mercati finanziari. La sterlina ha perso molto terreno, in particolare contro il dollaro (arrivando ai minimi degli ultimi 30 anni), così come i mercati azionari europei.
A guidare i ribassi sono stati i listini più fragili (Grecia, Italia, Spagna) e a livello settoriale i titoli finanziari. Impatti rilevanti si sono registrati anche nel reddito fisso, con un “flight to quality” (ossia una corsa verso i titoli ritenuti più sicuri) che ha spinto ancora più in basso i rendimenti decennali dei Treasury americani a 1,445% e i Bund tedeschi a -0,127%, e dall’altra parte ha spinto verso l’alto lo spread sui titoli governativi della periferia e sui corporate.
In particolare, evidenziano gli analisti di Anima, nelle scorse settimane sono state le banche italiane a subire i danni collaterali maggiori per lo shock prodotto dal referendum inglese del 23 giugno, complice la centralità dei titoli bancari sul listino italiano e nell’economia del nostro Paese che indeboliscono le prospettive di ripresa e portano operatori e investitori ad adottare un posizionamento più cauto nei confronti della Penisola.
Il peso dell’incertezza
Ai forti ribassi dei primi giorni post-Brexit è però seguito un parziale rimbalzo dei listini al punto che ora per gli addetti ai lavori è difficile prevedere quali saranno le prossime reazioni dei mercati. «La Brexit ha provocato oscillazioni molto forti sui mercati che sono destinate a restare per molto tempo perché alimentate dall’incertezza», osserva Marco Romani (nella foto), head of advisory della compagnia assicurativa Cnp Partners.
La Brexit, aggiunge, «è un evento politico senza precedenti e in quanto tale tutto dipenderà dagli accordi che il Paese prenderà con l’Unione europea». È per questo che «a oggi le conseguenze pratiche dell’uscita del Regno Unito dall’Ue sono poco prevedibili». Quello che è certo, aggiunge, «è che ci sarà un rallentamento economico, sia dell’Europa sia del Regno Unito stesso, che potrà costare all’Eurozona dallo 0,2 fino all’1% di Pil».
A livello macro, per Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs Wealth Management Italy, «l’incertezza causata dalla Brexit probabilmente indurrà le banche centrali a mantenere politiche monetarie espansive più a lungo di quanto sperato». Di conseguenza «le aspettative di un rialzo dei tassi, in particolare negli Stati Uniti, sono crollate lo scorso 24 giugno, insieme ai rendimenti dei titoli di Stato», tanto che oggi «circa un quarto dell’economia mondiale presenta tassi d’interesse negativi, una situazione di cui non vi è traccia nella letteratura finanziaria», aggiunge.
I tassi sottozero, sostiene Ramenghi «possono comunque dare un contributo positivo, poiché spingono le banche a non detenere eccessiva liquidità (e, quindi, a impiegare il denaro) e abbassano i rendimenti dei titoli di Stato aiutando le finanze pubbliche e forzando gli investitori ad assumersi più rischio». Tuttavia, dall’altro lato della medaglia, «la crescita dei prestiti bancari rimane anemica se non completamente assente, mentre l’attesa svalutazione di alcune monete non sempre si è materializzata», osserva, evidenziando inoltre che «con tassi estremamente bassi le banche si trovano a operare con margini e profitti minimi»…
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