Private debt, in Italia investimenti in crescita del 35%

Il private debt italiano inizia a strutturarsi come un mercato vero e proprio, sia in termini di volumi degli investimenti sia quanto a numero di operatori.

Come emerge dall’Osservatorio Private Debt redatto da Aifi in collaborazione con Deloitte, nel 2017 sono stati investiti 641 milioni di euro, +35% rispetto al 2016 (474,4 milioni), distribuiti su 82 target, il 55% in più dell’anno precedente. Cresce anche il numero di sottoscrizioni, pari a 102 (+26%), il che significa, ha spiegato Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi, che “la stessa azienda ha realizzato più emissioni o ha visto la presenza di più sottoscrittori”. Nel complesso, come si legge nell’Osservatorio, tra il 2014 e il 2017 in Italia sono stati raccolti 1,564 miliardi di euro (1,664 miliardi includendo il 2013), suddivisi in 272 investimenti e 175 target, delle quali oltre il 50% ha un fatturato inferiore ai 50 milioni.

Il salita anche il numero di operatori attivi, ossia che hanno compiuto almeno un investimento o annunciato almeno un closing, a 24 nel quadriennio (di cui 19 lo scorso anno). Di questi, 12 hanno raccolto e 23 hanno investito. Il 67% dei player totali è costituito da soggetti domestici (18), mentre il 33% è rappresentato da operatori internazionali (8).

“I fondi hanno terminato la raccolta e ora si dedicano agli investimenti” – ha affermato Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi – “lo strumento del private debt si è dimostrato estremamente utile per supportare lo sviluppo delle tante aziende italiane che hanno necessità di capitali per la crescita, questo vale non solo per le piccole imprese ma anche per quelle di grandi dimensioni che rappresentano il 45% delle target”. In generale, in un contesto globale in cui il private debt cresce velocemente – secondo le previsioni il 2018 sarà un anno record -, l’Italia dovrebbe potere cogliere la tendenza positiva: “L’Italia e’ a una fase iniziale, dovrebbe potere crescere a un passo più rapido rispetto al resto dell’Europa”, ha spiegato Cipolletta. Lo scoglio principale, però, è rappresentato dal fundraising perché “gli investitori non hanno ancora capito le potenzialità di questi strumenti”, ha aggiunto Gervasoni, e quindi “gli operatori fanno fatica a reperire le risorse”.

Raccolta e strumenti

Nel 2017 la raccolta è diminuita in quanto la maggior parte degli operatori ha avviato il fundraising nello stesso periodo. Nel 2017 sono stati sei gli operatori che hanno chiuso la raccolta per un ammontare pari a 292 milioni di euro (raccolta di mercato), rispetto ai 574 milioni del 2016. Guardando alle fonti della raccolta, sempre nello scorso anno, il 95% proviene da investitori istituzionali domestici, mentre il 5% dall’estero. Nella tipologia della fonte, il 27% del capitale è arrivato dalle banche, il 24% dai fondi di fondi istituzionali, in particolare il Fondo Italiano d’Investimento, e il 22% dalle assicurazioni. Residua ancora la componente estera (5%), soprattutto perché, ha osservato Gervasoni, “c’è un tema di first fund che difficilmente attira l’interesse di investitori internazionali. L’auspicio è che con il lancio dei fondi 2 ci sia un maggiore coinvolgimento”.

“In questa fase è normale che ci sia una ciclicità molto forte, dove alla raccolta fanno seguito gli investimenti”, ha aggiunto Gervasoni, spiegando che “il prossimo anno e mezzo sarà cruciale e bisognerà vedere cosa faranno gli investitori sul fronte della raccolta”.

Così come a livello europeo, anche in Italia ha sempre più peso la combinazione private equity – private debt. Un’operazione su quattro è infatti private equity baked, in particolare per quelle aziende tra i 50 e gli oltre 250 milioni di fatturato.

Guardando agli strumenti, il 66% delle operazioni sono state sottoscrizioni di obbligazioni (soprattutto minibond e per l’80% amortising), mentre il 32% crediti e il 2% ha riguardato strumenti ibridi. Per quanto riguarda le obbligazioni, la durata media è poco superiore ai 6 anni mentre sulle dimensioni delle sottoscrizioni, il 90% dei casi ha riguardato operazioni con un taglio medio inferiore ai 10 milioni di euro.  Circa la metà degli strumenti è quotato all’ExtraMOT PRO.

Caratteristiche delle target

Osservando le società target del comparto nel 2017, il fatturato medio è di 94,2 milioni di euro, con una prevalenza di società fino a 10 milioni di fatturato, le principali emittenti di minibond, seguite da quelle con un fatturato compreso tra i 50 e i 100 milioni. Il tasso medio è del 5,71%, com le aziende più grandi che spuntano condizioni migliori, per una durata media di 5 anni e 6 mesi.

A livello geografico, come anche accade nel settore del private equity e del venture capital, la maggior parte delle operazioni è concentrata nel nord d’Italia (73%) seguito dal centro Italia (16%); in coda troviamo il sud e le isole con l’11%. A livello regionale, il maggior numero di target, 22, è presente in Lombardia (27%), seguita dal Trentino Alto Adige, 13 (16%), dove è attivo un veicolo focalizzato sul territorio; al terzo posto il Friuli Venezia-Giulia (8) per un peso pari al 10% del totale.

Con riferimento alle attività delle aziende target, il 28% opera nel settore dei beni e servizi industriali, il 16% nell’alimentare, e l’11 nell’Ict. Le imprese con meno di 50 milioni di euro di fatturato rappresentano il 55% del totale, rispetto al 45% di aziende con un fatturato maggiore.

Lo scenario globale

I dati italiani seguono la tendenza globale. All’estero il private debt ha visto crescere i volumi, “la raccolta nei primi tre trimestri del 2017 è stata pari a 30 miliardi, contro i 25 dello stesso periodo dell’anno precedente, ma ha assistito a una polarizzazione del numero di operazioni, che si sono attestate in calo”, ha spiegato Andrea Giovanelli, partner di Deloitte. Il dato globale è influenzato dall’andamento del mercato statunitense, che ha catalizzato la metà della raccolta complessiva, effettuata da un numero di fondi in calo.

“In Europa il mercato guida è quello britannico”, ha poi continuato Giovanelli, spiegando che “nel 3 trimestre del 2017, il numero complessivo di deal registrati in europa è stato 729, dei quali 459 in Regno Unito, che da solo vale nel complesso il 60% del mercato europeo”. Seguono poi Francia e Germania per un terzo ciascuno, e il resto gli altri Paesi.

La metà delle operazioni è di leveraged buyout, un dato che rende evidente come “il private debt sia uno strumento guida per finanziare le acquisizioni, anche perché il settore bancario è diventato più selettivo e meno propenso a investire in operazioni di questo tipo e con una leva importante”, ha sottolineato Giovanelli. Subito dopo il private debt è scelto per la distribuzione dei dividenti agli azionisti e per il refinancing . In crescita la quota di growth capital.

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