I private equity investirebbero mai negli studi legali?

Approvato ufficialmente a inizio agosto dal Senato il Ddl Concorrenza prevede importanti novità anche per i professionisti legali e in particolare introduce la possibilità di avere dei soci di capitale. Ma chi investirebbe in uno studio legale italiano? Lo abbiamo chiesto ad alcuni fra i principali rappresentanti del mondo del private equity, riuniti nella Private equity conference organizzata ieri 5 ottobre a Milano (VIDEO IN BASSO).

La legge

Nel dettaglio il Ddl modifica la norma presente nella legge 247/12 togliendo il divieto per gli avvocati di appartenere a più di una sola associazione professionale. I professionisti potranno dunque scegliere tra società di persone, società di capitali o società cooperative e quindi ci sarebbe spazio per soci non iscritti all’albo avvocati.

Vi è però un limite costituito dai 2/3 del capitale (e del diritto di voto) che dovrà essere di competenza degli avvocati iscritti all’albo. I soci potranno essere anche amministratori della società ma l’organo di gestione dovrà essere composto in maggioranza dai soci avvocati. Il mancato rispetto di tale condizioni farà sciogliere la società. L’incarico professionale sarà poi svolto dal socio professionista con i requisiti richiesti per il tipo di attività richiesta.

Per Umberto Nicodano, partner dello studio BonelliErede, “la questione presenta ancora molte lacune” ad esempio “nel passaggio da un bilancio per cassa a uno per competenza” con la trasformazione in società per azioni, ma anche “nella distribuzione delle risorse o nell’exit: come potrebbe uscire un investitore?”. Di certo, aggiunge, “è un tema molto interessante e offre opportunità. Oggi gli studi legali sono sempre più delle realtà aziendali e gli stessi avvocati sono anche manager della società, avere un consiglio con delle persone che fanno i manager di mestiere non può che essere positivo”.

Investire, why not?

Che sia un’opportunità da considerare è anche l’idea della maggior parte dei professionisti del private equity interpellati da financecommunity.it. “Ne stiamo già parlando internamente e stiamo valutando le modalità per sviluppare questo tipo di investimento”, afferma Raffaele Legnani, managing director di Hig Capital, anche se “la difficoltà principale, ora, è capire perché uno studio debba voler aprirsi a un investitore, quale sarebbe la convenienza da un punto di vista economico”. Poi, aggiunge, “occorre valutare lo studio, ne esistono alcuni più adatti ad avere un socio di capitale, come quelli che svolgono un’attività scalabile quale ad esempio il servicing, perché hanno necessità di avere più risorse e strutture. Al contrario, quelli dedicati ad esempio all’m&a li considero meno adatti”.

Dello stesso avviso anche Edoardo Lanzavecchia, senior partner di Alpha private equity, secondo il quale “non ci sarebbe alcuna preclusione da parte nostra, anche se bisognerebbe valutare attentamente la capacità dello studio di prosperare e di dare un rendimento non solo agli avvocati stessi ma anche all’eventuale investitore”, mentre per Massimiliano Caraffa, director di The Carlyle Group, “in passato abbiamo investito in società di consulenza quindi la possibilità c’è, bisogna trovare il target giusto e il business giusto, però, why not?”.

Dall’altro lato della medaglia, sottolinea Marco Canale, ceo di Value Italy, “c’è una questione di potenziale conflitto nella scelta degli advisor legali nelle operazioni di m&a qualora un fondo che gestiamo dovesse avere in portafoglio uno studio”. Inoltre, osserva Valentina Franceschini, partner di Wise sgr, “quello degli studi è un business di persone, un asset difficile da controllare”, per cui “come private equity non investiremmo in uno studio”. La pensa così anche Fabio Sattin, founding partner di Private equity partners, mentre Michele Russo, di Terra Firma, ricorda che per quanto “ci siano oggi delle realtà che sono cresciute e si sono ristrutturate bene per cui un investimento si potrebbe valutare, sono rarissimi i casi internazionali in cui questo è avvenuto”.

Noemi

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