Scatta l’ora dei search fund
In principio era il fondo chiuso lo strumento principe per svolgere investimenti in private equity. Poi i tempi sono cambiati. Il mercato è cambiato. E le criticità e rigidità di questo tipo di strumento, soprattutto riguardo alle tempistiche, lo hanno reso meno adatto al mercato moderno. Di certo non si è estinto e probabilmente non lo farà, ma accanto ad esso negli ultimi vent’anni sono apparse altre forme di investimento alternative come le spac o i club deal, solitamente importate in Italia dagli Stati Uniti.
Nel 2019 è il turno dei search fund, un veicolo di investimento che sta piacendo molto in Italia tanto che in due anni ne sono nati almeno otto. Secondo gli esperti sono particolarmente adatti al nostro sistema imprenditoriale. Ma ad attirare saranno i redimenti che possono superare il 30% di Irr.
Veicoli ad personam
Il concetto di search fund è stato coniato per la prima volta nel 1984 da Irving Grousbeck, professore all’Università di Stanford, che assieme al ricercatore Jim Southern ha creato il primo esemplare, Nova Capital. Come spiega a MAG Fabio Sattin (nella foto), presidente e socio fondatore di Private Equity Partners e professore a contratto di Private equity e Venture capital dell’Università Bocconi, i search fund sono «veicoli di investimento attraverso cui un pool di investitori fornisce risorse direttamente ad aspiranti imprenditori, i quali cercano la società target da acquisire, in genere una piccola o media azienda, che successivamente gestiscono in prima persona e fanno crescere nel tempo».
All’inizio, aggiunge, «questi strumenti sono nati avendo come soggetti promotori studenti MBA che hanno limitata e a volte anche nulla esperienza imprenditoriale ma che sono desiderosi di mettersi in gioco. Successivamente il modello è diventato più popolare, soprattutto a partire dal 2000, e oggi coinvolge sempre di più anche manager con consolidata esperienza».
A livello globale, secondo i dati raccolti da Searchfunder.com, esistono 986 veicoli di questo tipo (le spac nate dal 2003 a oggi sono 230, per fare una comparazione). Tra Stati Uniti e Canada, dalla nascita al 2017, questi veicoli hanno realizzato investimenti per 924 milioni di dollari, generando un valore aggregato per gli investitori di 5,7 miliardi. In Europa oggi si contano un centinaio di search fund sempre secondo le rilevazioni di Searchfunder.com, di cui 30 in Regno Unito e 25 in Spagna.
A dare una spinta allo strumento negli ultimi anni sono stati soprattutto i ritorni. Stando a una ricerca condotta da Antonio Molinari, laureatosi in Bocconi con una tesi sui Search Fund, dal 2017 al 2018 i search fund europei hanno registrato un Irr del 33,3% (28,4% se escludiamo i primi tre e 27,4% se escludiamo i primi cinque, un dato in crescita rispetto al triennio precedente, pari a 17,4%). L’Irr realizzato dai private equity italiani che hanno investito in società con fatturato inferiore ai 50 milioni è stato del 13,6%. Certo, come osserva Sattin, «è correlato al maggior rischio assunto investendo in una piccola impresa ma questi importantissimi ritorni sono un forte incentivo per gli investitori».
Otto veicoli
In Italia, l’ultimo in ordine di tempo ad aver lanciato un search fund di diritto italiano è Toby Sacchi Clarence-Smith, affiancato da Dla Piper. Battezzato CS Investimenti srl, il veicolo è sostenuto da un gruppo di 16 investitori, soprattutto family office internazionali e da fondi di private equity statunitensi, spagnoli e tedeschi. Sacchi Clearance-Smith ha un passato come co-founder di Petsy.mx, una delle principali piattaforme di e-commerce per prodotti per animali domestici del Messico.
Il primo search fund in Italia è stato invece Maestrale Capital, lanciato nel febbraio 2017 da Vito Giurazza, già executive director nel dipartimento m&a di JP Morgan e ha lavorato come consulente per Bain & Company. Poi è stata la volta di Tre Cime Capital lanciato inizialmente in Spagna, e poi tornato in Italia, da Tommaso Romanelli, manager che si è formato nella Silicon Valley lavorando nel settore delle rinnovabili (ha guidato la Makani Power, poi acquisita da Google X). A finanziarlo sono stati investitori come Daniele Benatoff, gestore di hedge fund ed ex Goldman Sachs, Paolo Guida, manager del settore delle startup, oltre a imprenditori americani come Bill Egan, fondatore della multinazionale Alta Communications e tra i venture capitalist più noti negli Usa. A seguire, rileva l’Università Bocconi, sono nati Sprint Capital, promosso da Manuel Piccinato, Augusta capital, lanciata da Pietro Paolo Paci, Ariol Capital, promosso in Spagna da Marc Bartomeus e Patria Private Capital, che vede come promotore Guido Fileppo, un MBA presso INSEAD e un master in finanza dalla London School of Economics, e investitori fra cui Roberto Italia, Eisvogel group e Marco Ariello di Syntegra Capital.
Il funzionamento
Nel dettaglio, ad avviare l’entità legale del search fund e iniziare il fundrasing tra gli investitori sono i futuri manager-promotori. Le somme richieste ai circa 10-15 investitori – solitamente family office oppure operatori di private banking – sono contenute, dai 200mila ai 650mila dollari totali per un ticket medio di 25mila dollari, emerge dal report di Molinari, in quanto funzionali a finanziare la prima fase di ricerca della potenziale acquisizione (c.d. search capital), quindi a coprire i costi amministrativi, organizzativi, di due diligence e un minimo di remunerazione del promotore. «Al pool di investitori viene poi riservato il diritto, una volta identificata la potenziale acquisizione, di effettuare, pro quota, l’investimento a supporto dell’acquisizione a condizioni prestabilite » spiega Sattin.
La ricerca della target, solitamente piccole e medie imprese in bonis con una size media di 2 milioni di ebitda e un fatturato di 10-20 milioni, avviene mediamente in 18-24 mesi. Così come in una spac, «l’investimento, una volta identificato, dovrà essere a loro sottoposto per approvazione finale», osserva il professore. L’Università di Stanford, in una ricerca del 2016, ha stimato un 73% di casi di riuscita dell’operazione di acquisizione della target. In caso contrario la somma può essere persa in quanto non viene identificata una target.
Una volta trovata la target, che viene pagata normalmente abbastanza poco stanti le piccole dimensioni e quindi la scarsa concorrenza da parte di altri potenziali acquirenti (il prezzo medio è di circa 4 volte l’Ebitda rispetto ai 6-10x del private equity) è il momento di gestirla. «In questa fase le skills del manager sono fondamentali per la corretta gestione dell’azienda che è comunque supportata dall’expertise e dal network degli investitori, che solitamente sono singoli o entità già da tempo sul mercato e con grande competenza», spiega Sattin.
I search fund, in questo senso, possono essere anche tematici coinvolgendo investitori, ad esempio famiglie, del settore dove si andrà a cercare la società da acquisire, ed in quanto di matrice spesso “industriale”, come nel caso di molti family offices, possono anche scegliere di non vendere l’azienda e rimanere nel tempo come azionisti per poi magari quotarsi in Borsa. «È quindi un processo molto industriale, in cui si può ridare nuova linfa imprenditoriale e creativa a realtà che altrimenti rischierebbero il declino. E in Italia società in queste condizioni ce ne sono purtroppo moltissime», spiega Sattin. L’holding period non è quasi mai stabilito a priori, la media è di sette anni e l’exit può avvenire secondo le classiche modalità del private equity. «Ma molti non hanno nemmeno un’exit, in realtà – osserva il professore – dipende dal fondo e dalla tipologia dei suoi investitori. L’aspetto interessante è che c’è molta flessibilità…
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