Private equity e private debt, capitali coraggiosi cercasi
L’epoca dei tassi zero e dei rendimenti al minimo sui mercati assomiglia un po’ al mondo parallelo chiamato “upside down” della serie Stranger Things: un territorio cupo e pieno di insidie in cui ogni certezza viene meno.
Se infatti prima della crisi investire in titoli di Stato e in large corporate dava una certa sicurezza in termini di rischio/rendimento, oggi non è più così. Anzi i rendimenti attesi stanno scendendo e per alcuni titoli sono addirittura negativi, stando ai dati dell’European Investment Consulting. In questo “upside down” senza più riferimenti, i grandi investitori istituzionali italiani, tradizionalmente operatori statici del mercato dei bot e btp, hanno dovuto iniziare a guardarsi intorno per continuare a mantenere gli obiettivi di rendimento prefissati.
Le cifre in attesa d’allocazione sono enormi. Alla fine del 2015 solo quelle che fanno capo alle 469 forme pensionistiche complementari presenti in Italia erano pari a 216 miliardi di euro (dati di Itinerari Previdenziali). E nel complesso, il risparmio privato italiano ammonta a 2 mila miliardi.Se gli investimenti più “tradizionali” non rendono più, ci sono sempre gli alternativi, come ad esempio gli Organismi di investimento collettivi del risparmio (Oicr), fra cui il private equity e il private debt. E poiché questi ultimi investono nell’economia reale, puntare su di loro potrebbe innescare anche un circolo virtuoso attraverso il quale dal risparmio si genera crescita economica e quindi ulteriore risparmio.
Ma nella realtà le cose stanno diversamente. Oggi solo una piccola percentuale di queste risorse viene investita in strumenti di private capital: nel 2016 solo un misero 0,08% di quei 216 miliardi. Circa 160 milioni sono andati in private equity e venture capital e 25,28 milioni in private debt (per un totale di 185,28 milioni), stando ai dati Aifi. La deriva peggiore di tutta questa situazione è che non finendo nelle asset class alternative, queste risorse hanno iniziato a percorrere altre strade. E tutte portano all’estero.
IL DEFLUSSO
A livello generale, come rileva Banca d’Italia, tra gennaio 2014 e ottobre 2016 assicurazioni e fondi pensione hanno e ettuato acquisti netti di titoli esteri per oltre 116 miliardi, dopo sette anni di investimenti modesti o negativi. In dettaglio, gli investimenti sono stati fatti in titoli di debito (49 miliardi), azioni quotate (5 miliardi) e quote di fondi di investimento (63 miliardi).
Questo deflusso, che riguarda sia gli investimenti sul mercato, sia quelli in strumenti alternativi, è unilaterale poiché gli investimenti in titoli italiani da parte di stranieri è inferiore ed è pari a 20-25 miliardi. «Siamo diventati esportatori di capitali netti», ha commentato Federico Pastura di Zephir Capital Partners.
Per fare qualche esempio, Fondaco Sgr, gestore di diverse fondazioni bancarie, su oltre 3 miliardi di asset under management ha investito circa 1 miliardo in alternativi. Di questi, 300 milioni sono dedicati al private equity e solo 30 milioni circa a operatori italiani. N
el settembre 2016 soggetti come Unipol, Inarcassa ed Eppi (Enti previdenziali periti industriali), oltre ad alcuni family o ice, hanno investito 64 milioni, sui 75 totali raccolti, in Timberland Investment Resources Europe Forestry, fondo guidato sì da un italiano, Gian Paolo Potsiotis, ma specializzato nell’acquisizione, nella valorizzazione e nella gestione di asset forestali negli Stati Uniti. Se prendiamo poi le assicurazioni, i dati Ania del 2015 mostrano che gli investimenti in fondi di debito e di credito sono stati pari a quasi 7 miliardi. Di questi 331 milioni sono finiti al private equity italiano, stando all’Aifi, mentre dal 2013 al 2015 l’ammontare investito in fondi di credito italiani è stato pari a 122 milioni.
PERCENTUALE MINIMA
Per l’Ocse i fondi pensione che guardano all’estero sono quelli che non trovano nel loro paese un mercato dei capitali su icientemente grande, liquido e diversificato. Trattenere i capitali in Italia significa dunque mostrare le potenzialità degli investimenti alternativi nel nostro Paese. Come osserva Fabio Sattin, presidente e socio fondatore di Private Equity Partners, «la vera sfida è fare sì che parte di queste risorse resti in Italia in maniera sana, perché più conveniente in termini di rischio/rendimento».
In Italia, però, stando ai dati di Cambridge Associates del 2015 i ritorni dall’attività di investimento dei private equity in termini di Irr sono stati pari al 34,5%, al di sopra della media del 57 Il punto 22% nell’Europa occidentale. E non sembra esserci neanche una questione fiscale: lo scorso maggio, infatti, è stato esteso anche agli investimenti diretti e indiretti di private equity e di venture capital il credito d’imposta previsto in favore di fondi pensione e casse di previdenza (5%), introdotto dalla Legge di Stabilità 2015.
Tuttavia il commitment degli italiani verso queste asset class resta relegato a percentuali irrisorie, anche se comparate con quelle degli altri Paesi (negli Usa almeno il 15% delle risorse è rivolto ad alternativi, in Canada il 20% e in Ue il 10% di media). Come ha illustrato Giovanni Maggi, presidente di Assofondipensione, l’associazione che rappresenta i fondi pensione negoziali: «Finora il 93% dei 46 miliardi gestiti dai nostri aderenti è stato destinato a titoli di Stato (70%) e azioni di società quotate (23%), trascurando gli asset alternativi».
In generale, nel 2015, rileva Itinerari previdenziali, i fondi pensione hanno investito il 6% delle risorse complessive (2,5 miliardi) in Oicr (di cui una minima parte è finito in private capital) e le casse professionali il 5% (dei quali 28% – 744 milioni – in private equity e l’1% – 37,5 milioni – in private debt). Nel 2016, invece, le assicurazioni hanno investito 118 milioni in private equity e venture capital italiani e 75,84 milioni in private debt (per complessivi 194 milioni). «L’Italia – si lamenta un noto operatore del settore private equity che preferisce restare anonimo – è un Paese asfittico dove cercare capitali».
Lo stesso problema sembrano averlo anche per i private equity stranieri. Un executive di un grosso fondo americano, intervenuto in una conferenza a Londra, ha spiegato che «dei 27 miliardi raccolti dall’inizio della nostra attività non ci sono soldi italiani e non ci siamo mai confrontati con nessuno che abbia mostrato interesse. Il che è un peccato perché avere soldi italiani sarebbe una dimostrazione che l’Italia può essere anche una fonte di risorse e non solo una destinazione».
STRUTTURA, DIMENSIONE, COMPETENZE
Ma perché questi investitori istituzionali investono ancora così poco nelle asset class alternative? Le ragioni sono molteplici, prima fra tutti la struttura stessa dei fondi pensione…
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