Canè (Nb Renaissance): «Con le aziende, nel ricambio generazionale»

Italia, terra di ingegnosi imprenditori e pmi eccellenti gestite da famiglie per intere generazioni. In effetti, stando ai dati dell’Aidaf, l’associazione italiana delle aziende familiari, in Italia le aziende di famiglia sono circa 784mila – più dell’85% del totale– delle quali 4mila con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro.

Se come incidenza il contesto italiano risulta essere in linea con quello delle principali economie europee quali Francia (80%), Germania (90%), Spagna (83%) e Regno Unito (80%), il nostro Paese è indietro quando si tratta di introdurre manager esterni: il 66% delle aziende familiari italiane ha tutto il management composto da componenti della famiglia, mentre in Francia questa situazione si riscontra nel 26% delle aziende familiari e in UK solo nel 10%.

Si tratta dunque di un elemento di grande svantaggio per le imprese che vogliono restare sul mercato, soprattutto in un contesto globalizzato come quello attuale, ma che invece rappresenta un’opportunità per i fondi.

È proprio su questo gap manageriale, e sul tema del ricambio generazionale, che Nb Renaissance punta la sua strategia di investimento. Il private equity, nato nel 2015 da una partnership strategica tra Neuberger Berman e Intesa Sanpaolo, è guidato dai senior partner Marco Cerrina Feroni, Fabio Canè (nella foto) e Stefano Bontempelli e conta un team, «fra i più grandi in Italia, con 17 persone oltre al supporto della piattaforma globale di private equity di Neuberger Berman che include 120 professionisti», dice Canè, che è anche managing director di Neuberger Berman, in questa intervista a MAG. All’attivo ha due fondi: NB Renassaince Partners lanciato nel 2015 con una dotazione di 620 milioni raccolti da investitori domestici e internazionali, e NB Renaissance Partners Annex, lanciato nel luglio scorso – in co-investimento con il primo – e con una raccolta di 310 milioni. Nel complesso, spiega Canè, «si tratta di 920 milioni gestiti». E stando a quanto risulta a financecommunity.it, ci sarebbe in programma il lancio entro l’anno di un terzo fondo grande circa 1 miliardo di euro.

Il gruppo si è distinto in modo particolare l’anno scorso per essersi aggiudicato, dopo un’agguerrita asta con Tikheau Capital, il portafoglio di 21 aziende in mano al Fondo Italiano d’Investimento. Asset che, spiega Canè, faranno capo a un altro fondo di nuova costituzione, Nb Aurora, gestito dal team di nove professionisti provenienti da Fii e che sarà quotato in Borsa (si veda il box).

Come Nb Renaissance, oltre alle 13 aziende già in portafoglio di Intesa, il gruppo in due anni ha acquisito quattro aziende: Comelz, azienda attiva nella produzione di macchine da taglio per l’industria calzaturiera e della pelletteria, assieme a Fineurop Soditic (leggi qui la notizia), Biolchim, nella produzione e nella commercializzazione di fertilizzanti speciali, in co-investimento con Chequers Capital, Farnese Vini, per 40 milioni e, assieme ad Apax Partners, Engineering, società specializzata nella realizzazione di prodotti software in particolare per i settori bancario, utilities e sanità, poi delistata. Oltre ad aver realizzato un add-on per Rina nel Regno Unito.

 

Dottor Canè, a oggi quante aziende avete in portafoglio?

Nel complesso oggi abbiamo 15 aziende, di cui quattro acquisite negli ultimi anni. Abbiamo dismesso otto aziende appartenenti al portafoglio originale acquisito da Intesa Sanpaolo, nove se consideriamo l’IPO di Pirelli e abbiamo altre tre aziende in procinto di essere cedute. Siamo stati molto attivi dal 2015 quando abbiamo costituito il nostro primo fondo e nel complesso abbiamo restituito circa 290 milioni di euro ai nostri investitori che saliranno ad euro 560 milioni nel giro di alcuni mesi.

 

Da cosa siete guidati nella scelta delle società target?

La domanda che ci siamo fatti è “cosa hanno in comune tutte queste aziende?” Ci siamo resi conto che ci sono sempre degli elementi in comune che hanno contraddistinto i nostri investimenti: compriamo aziende che si distinguono sul mercato o in nicchie globali o nazionali, dove ci sono forti barriere all’ingresso; ci piace supportare le aziende nell’evoluzione da esportatrici a multinazionali, favorendo un cambio culturale e strutturale importante. Il nostro cavallo di battaglia è la gestione dei piani di successione, laddove esiste l’esigenza di assistere le famiglie nella gestione del ricambio generazionale. Ad esempio in due delle aziende di più recente acquisizione, i fondatori, in assenza di un successore, hanno voluto cedere l’azienda a un fondo in modo da proseguire con il percorso di crescita intrapreso e per compiere dei passaggi cruciali che altrimenti non sarebbero stati possibili. In sostanza vogliamo aiutare gli imprenditori a passare da una gestione di stampo famigliare a una più idonea a gestire le sfide del mercato.

 

E per quanto riguarda le operazioni di secondary buy-out che avete fatto?

Abbiamo comprato due società che ci sono piaciute particolarmente, gestite bene da fondi di dimensioni più piccole che le hanno aiutate molto nella crescita iniziale ma che adesso avevano bisogno di affidarsi ad un altro partner per compiere un ulteriore passaggio dimensionale. In questi casi è stato il management stesso a sceglierci e a decidere di co-investire. Il dialogo con i manager e la scelta reciproca è fondamentale.

 

Quale è il vostro target ideale?

Non abbiamo una forchetta definita, solitamente ci rivolgiamo ad aziende dai 50 ai 400 milioni di fatturato ma come nel caso di Engineering, anche ad aziende di dimensioni più grandi (fino a 850 milioni di fatturato), con il supporto dei nostri investitori che co-investono con noi.

 

Come lavorate con le controllate?

Utilizziamo una leva finanziaria limitata e puntiamo allo sviluppo anche attraverso acquisizioni: a oggi le nostre società hanno comprato 19 aziende – 20 tra meno di un mese – con 410 milioni di euro di fatturato aggiuntivo. Il modello funziona, ad esempio consideri che la crescita media del nostro portafoglio è stata del 13% in termini di fatturato e del 14% di ebitda. Il 73% dell’aumento di valore realizzato nelle nostre partecipazioni cedute è generato da miglioramenti operativi. In generale, la gestione deve avvenire in continuità e l’obiettivo principale è far diventare queste aziende delle vere multinazionali, sostenibili e scalabili nelle dimensioni. Con Comelz, per fare un esempio, abbiamo acquisito altre aziende operative a livello globale in modo da internazionalizzarci anche in termini di servizi offerti e di attività commerciale.

 

In quali settori preferite lavorare?

In mercati dove c’è più frammentazione con possibilità di consolidamento, anche perché solitamente in questi mercati i prezzi delle aziende target sono più bassi per le minori dimensioni e le imprese hanno bisogno di far parte di una piattaforma più grande

 

Di che bacino potenziale stiamo parlando?

Indicativamente ci son almeno 4-5mila aziende della dimensione dai 50 ai 500 milioni di fatturato. Di queste circa il 60% è posseduta da famiglie con circa la metà gestite da un imprenditore di oltre 60 anni e che deve affrontare un tema di ricambio generazionale. Parliamo di circa 1500 aziende.

 

Che tipo di investimenti realizzate?

I ticket di investimento diretto vanno dai 40ai 120 milioni di euro, principalmente in operazioni di maggioranza ma anche di minoranza. Il nostro intervento può arrivare anche a 400-500 milioni di equity se consideriamo la base dei nostri co-investitori e il resto della piattaforma.

 

Quali sono i vostri prossimi passi per quest’anno?

Al momento abbiamo ancora circa 100 milioni di euro da investire e come NB siamo al lavoro per la quotazione di NB Aurora, il primo veicolo quotato in Italia di sole minoranze di accompagnamento a imprenditori per lo sviluppo dei loro progetti di lungo termine.

 

Che posizionamento volete raggiungere?

Faccio una premessa. A mio avviso il mercato del private equity italiano è biforcato. Da un lato ci sono i grandi player, solitamente internazionali, che operano in modo opportunistico e investono in operazioni che vanno dai 200 – 300 milioni in su. Dall’altro ci sono le realtà più piccole, con fondi da 100-200 milioni che fanno operazioni sullo small cap di dimensioni di euro 15-30 milioni. La parte intermedia è meno presidiata, ci sono tre o quattro soggetti attivi ed è lì che vogliamo operare…

PER CONTINUARE LA LETTURA SCARICA GRATIS L’ULTIMO NUMERO DI MAG

SHARE