Capitali di venture in cerca di un ecosistema
Un nano sulle spalle di un nano, ma con tanta voglia di guardare lontano. Il venture capital italiano soffre di carenza di dimensioni, malattia diffusa in tutta Europa. Il vecchio continente, infatti, se paragonato agli Stati Uniti, sul fronte degli investimenti in innovazione fa una brutta figura. Ma in Italia i capitani di venture sono una pattuglia particolarmente esigua.
Male, anzi malissimo, dunque? No. Il quadro va migliorando, anche se a piccoli (troppo piccoli) passi. E all’orizzonte si profila un evento che potrebbe accelerare la trasformazione del venture made in Italy in un’industria vera e propria. È tutto pronto, infatti, per il varo ufficiale del Fondo Nazionale Innovazione (Fni), con una dotazione iniziale di 1 miliardo di euro. Il decreto relativo all’istituzione del Fni è stato pubblicato in gazzetta ufficiale il 5 agosto scorso. Poco dopo è esplosa la crisi del primo governo Conte. Risultato: tutto bloccato. Il secondo governo Conte ha creato il ruolo di ministro dell’Innovazione, assegnando la poltrona a Paola Pisano, docente di gestione dell’innovazione all’università di Torino, molto vicina al mondo del venture.
Il Movimento cinque stelle (M5s) aveva già dimostrato, con la precedente maggioranza, di essere sensibile alla tematica dell’innovazione tecnologica. E il Partito democratico (Pd) non può permettersi di restare indietro su un terreno storicamente riferibile alla sinistra (con tutte le ambiguità che questa espressione assume nell’attuale contesto storico).
Così, uno dei primi atti del secondo governo Conte è stata la pubblicazione, il 27 agosto scorso, di un decreto che istituisce il primo dipartimento per la trasformazione digitale, direttamente dipendente da Palazzo Chigi, che sarà operativo da gennaio 2020.
Il volàno che dovrebbe far decollare il venture in Italia è il Fni. Affinché sia operativo occorre completare il conferimento a Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) del 70% del capitale di risparmio di Invitalia Ventures Sgr. Lungaggini burocratiche, legate alla governance, hanno fatto slittare la messa a terra del Fni, attesa inizialmente a giugno. Ora, secondo alcuni operatori, l’ultima parte dell’anno dovrebbe vedere il taglio del nastro. Ma c’è chi ipotizza che prima del 2020 non se ne faccia nulla. Sembra che il nome di chi guiderà il fondo sia stato individuato, ma non ci sia ancora totale consenso politico.
Il nodo è che l’industria si è trovata in una terra di mezzo tra la fine dell’attività del Fondo italiano di investimento (Fii) – che ha appena varato un nuovo fondo di fondi, FoF PE, ma dedicato al solo private equity (vedi la notizia su Financecommunity) – e l’attesa per la partenza del Fni.
Al Fni verranno conferiti 110 milioni di risorse dirette stanziate in manovra, 400 milioni di risorse già esistenti ed erogate da Invitalia Ventures e 500 milioni versati da Cdp.
«Il progetto del Fni è molto ambizioso», nota Lorenzo Franchini (nella foto), fondatore di ScaleIT, evento-piattaforma nato per favorire l’incontro tra gli investitori internazionali interessati a realtà ad alto potenziale e le scaleup italiane (che quest’anno si è tenuto nei giorni 23 e 24 ottobre). «Di fatto, invece di portare più risorse le ha bloccate da circa un anno. Questo sicuramente non ha aiutato il mercato a crescere ulteriormente, nonostante le spinte non governative ci siano».
Andrea Di Camillo, managing partner di P101, ritiene che il Fni «possa spianare la strada per il venture capital e le imprese innovative italiane, aiutando a far dell’Italia una smart nation un po’ come avvenuto in Francia con le misure di Macron. Ma ora è necessario creare le condizioni migliori affinché questo fondo possa essere efficacemente implementato, istituendo strumenti di monitoraggio degli investimenti ed evitando la distribuzione a pioggia delle risorse, focalizzando l’attenzione sui settori realmente innovativi e strategici per il Paese».
L’ESEMPIO FRANCESE
La Cassa guidata da Fabrizio Palermo avrà il ruolo di regista degli investimenti, secondo uno schema mutuato dall’esperienza di altri Paesi, in primis la Francia, ovvero il pubblico fa da motore e stimola i privati a raddoppiare l’investimento statale, generando un effetto leva che porta le startup a ottenere finanziamenti fino a dodici volte il contributo pubblico. Nasce così un ecosistema.
Certo, a Parigi ragionano su numeri che da queste parti sono chimere. Sono passate poche settimane da quando il presidente francese, Emmanuel Macron, ha ricevuto duecento imprenditori e investitori, membri di France Digital, la principale associazione che raggruppa i protagonisti dell’ecosistema startup e venture capital transalpino. Macron ha detto di non essere del tutto soddisfatto degli investimenti effettuati nel 2018: stiamo parlando di 3,7 miliardi di euro, contro 598 milioni in Italia (ed è stato un anno record). Poi ha puntato il dito contro gli investimenti superiori ai 100 milioni per ciascuna azienda: tredici sono troppo poche, ha detto; peccato che in Italia nessuna azienda innovativa abbia ricevuto un investimento di queste dimensioni. Il numero uno dell’Eliseo ha posto come obiettivo del suo mandato aver contribuito a creare almeno 25 unicorni (le startup valorizzate almeno 1 miliardo di euro) entro il 2025. Avendoli di fronte, Macron ha avuto gioco facile nel chiedere conto agli amministratori delegati delle compagnie assicurative dei ritardi negli investimenti in fondi growth stage per finanziare scaleup tecnologiche, strappando, di conseguenza, l’impegno a erogare almeno 5 miliardi, una cifra assolutamente mostruosa, se paragonata alla realtà italiana. Nel nostro Paese, infatti, gli investitori istituzionali (assicurazioni, fondazioni bancarie, casse previdenziali, fondi pensione) stanno storicamente alla larga dagli asset illiquidi, con l’eccezione del real estate; anche da quelli relativamente poco rischiosi come il private equity, figuriamoci dal venture capital (ne abbiamo parlato sul numero 127 di MAG, a proposito del Miv).
«Le assicurazioni», argomenta Alessio Beverina, general partner di Panakès Partners, «da sempre sensibili ai desideri dei policy makers in quanto loro stesse ne dipendono, si girano dall’altra parte perché non sentono il tema come importante. Le poche aziende di grandi dimensioni, anche quelle partecipate dallo Stato che pure ne nomina i vertici, mostrano indifferenza e preferiscono investire al di fuori del nostro Paese, senza quindi contribuirne concretamente allo sviluppo».
Se gli investitori istituzionali latitano, il cosiddetto corporate venture capital, ovvero l’investimento in innovazione da parte delle imprese, in Italia è un esercizio per pochi intimi: qualche società farmaceutica (Zambon, Chiesi, Dompè) e Intesa Sanpaolo.
2018 ANNO RECORD, 2019 SARÀ MIGLIORE
Di nuovo, però, il quadro non è solo ombre. Anzi, ci sono diverse luci che stanno squarciando il buio. Il 2018, come si accennava in precedenza, è stato un anno record per il venture made in Italy: 177 aziende, fra startup e scaleup, hanno annunciato round per 480 milioni, con un incremento del 261% sull’anno precedente. È cresciuta la dimensione media dei round di finanziamento: trentuno oltre 3 milioni, di cui dodici oltre 10 milioni.
«Il 2018 è stato l’anno del giro di boa per il venture capital italiano», commenta Di Camillo di P101. «Innanzitutto, per la prima volta abbiamo osservato un volume interessante e di gran lunga superiore ai 100 milioni attorno a cui ci siamo mossi negli ultimi sei anni. Ma il 2018 sarà un anno da ricordare soprattutto perché si sono finalmente creati i presupposti per costruire un’attività solida di investimento sull’innovazione in Italia e per l’Italia».
La prima parte del 2019 ha confermato il trend positivo. Secondo l’osservatorio periodico di StartupItalia!, nel primo semestre sono stati investiti 397 milioni, distribuiti su 43 round, segno di incremento delle dimensioni medie.
Nei primi nove mesi, riferisce Franchini di ScaleIT, «gli investimenti sono aumentati del 52% in termini di volumi complessivi sull’anno precedente, toccando quota 608 milioni. I round che hanno visto la presenza di investitori internazionali rappresentano una quota superiore al 50% e salgono in valore assoluto a 324 milioni».
L’interesse crescente degli investitori esteri per le startup italiane si evince dall’esempio di Casavo, che in due round nel giro di pochi mesi ha raccolto 100 milioni (leggi la notizia su Financecommunity). A catalizzare lo sguardo dei fondi internazionali, sottolineano gli operatori, paradossalmente sono i limiti del mercato italiano: in un contesto globale che vede enormi masse di liquidità in cerca di impieghi remunerativi, un Paese con aziende sottocapitalizzate, poca concorrenza e valutazioni contenute costituisce un’opportunità.
Fausto Boni, general partner di 360 Capital Partners, ridimensiona l’entusiasmo per i numeri che il venture italiano si appresta a stabilire nel 2019: «È un record dei poveri, gli altri Paesi fanno volumi dieci volte superiori. La realtà è che ci stiamo allontanando dal resto d’Europa».
A livello globale, emerge dal report Venture Pulse di Kpmg, i primi sei mesi dell’anno hanno confermato il gap tra Stati Uniti, che hanno registrato investimenti per 52,7 miliardi di dollari, ed Europa, in crescita, certo, ma con volumi cinque volte inferiori (14,24 miliardi di dollari). In totale, gli investimenti in startup e scaleup sono stati pari a 105,7 miliardi di dollari.
Secondo il Quarterly European Venture Capital Report di Dealroom, relativo al terzo trimestre, da inizio anno sino a fine settembre sono stati investiti 28 miliardi di euro dai fondi di venture capital in Europa e Israele, contro i 21 miliardi dello stesso periodo del 2018 e i 29 miliardi di tutto il 2018. Nel solo terzo trimestre sono stati investiti 9,8 miliardi. Tra luglio e settembre, rivela Dealroom, in Italia sono stati investititi 200 milioni in ventuno round. Il nostro Paese è ben distante da Gran Bretagna (2,6 miliardi e 180 round), Germania (2 miliardi e 121 round), Israele (1,6 miliardi e 75 round) e Francia (1 miliardo e 127 round). Purtroppo veniamo superati anche da Paesi con Pil inferiori e nessuna vocazione particolare all’innovazione (Israele, da questo punto di vista, fa storia a sé). Nel terzo trimestre, infatti, gli investimenti di venture capital sono stati più alti di quelli italiani in Svezia (0,6 miliardi e 28 round), Svizzera (0,5 miliardi e 26 round), Paesi Bassi (0,4 miliardi e 36 round) e Spagna (0,4 miliardi e 63 round).
Detto questo, sempre secondo quanto emerge dal report di Dealroom, in Asia e in Nord America gli investimenti di venture capital sono stati nettamente superiori. In Asia, infatti, startup e scaleup hanno incassato round per un totale equivalente di 18,8 miliardi di dollari tra luglio e settembre, mentre in Nord America i venture hanno investito nel periodo 31,9 miliardi.
Altri numeri per certificare la distanza, sul fronte del venture, tra Usa ed Europa (che, ricordiamo, hanno Pil quasi identici). Secondo un rapporto di Axon Partners Group, l’anno scorso i fondi di venture a livello globale hanno raccolto 90 miliardi di dollari; in media, però, i fondi europei ricevono capitali pari a 3,5 volte meno quelli incassati dagli omologhi americani. A mancare sono soprattutto gli investitori istituzionali (cosiddetti long term financial investors): Axon riferisce che tra il 2012 e il 2016 negli Usa sono stati raccolti 158 miliardi di dollari, di cui il 55% (87 miliardi) dagli istituzionali; in Europa, nello stesso periodo, sono stati raccolti 48 miliardi di dollari, di cui appena il 27% proveniente dagli istituzionali.
All’interno dell’Europa, poi, l’Italia si caratterizza per un nanismo cronico. Il venture capitalist Stefano Peroncini ha elaborato i dati contenuti nei report di Aifi-PwC e Invest Europe sulla raccolta dei fondi tra il 2016 e il 2018: la Gran Bretagna ha raccolto 8,9 miliardi, di cui appena il 9% è rappresentato da contributi pubblici; la Francia ha registrato una raccolta pari a 6,7 miliardi, con una quota statale del 21%; la Germania ha raccolto 4,1 miliardi, con un contributo pubblico pari al 27%; l’Italia si è fermata a 750 milioni, con una quota riferibile allo Stato pari al 45%.
La lettura di questi numeri è intuitiva: con l’eccezione della Gran Bretagna, dove lo spirito imprenditoriale dei privati tiene a distanza lo Stato dall’economia (un atteggiamento ereditato e amplificato all’ennesima potenza dagli Usa), l’intervento pubblico è indispensabile per far decollare il venture capital; man mano che assume le dimensioni e le caratteristiche di una vera e propria industria, lo Stato perde peso negli investimenti. Da questo punto di vista, come sottolinea Beverina di Panakès, l’Italia attuale assomiglia alla Francia di circa quindici anni fa: «Lo Stato ci ha messo il suo e ha convinto assicurazioni, privati e corporate a investire. E ora ci sono un sacco di imprese che assumono laureati, dottori in ricerca, giovani»…
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