Investimenti alternative: dalla teoria alla pratica

di Nicola Barbiero*

Il primo buon proposito per il 2019 è quello di passare dalla teoria degli investimenti alternativi alla pratica, facciamo un passo oltre alla teoria della diversificazione, poca volatilità, ecc…: questa asset class ha davvero un riscontro sull’economia di un Paese? Se sì in che misura?

Negli ultimi mesi, sempre più spesso, il concetto di investimento alternativo è stato parzialmente sostituito con quello di “strumenti per l’economia reale”; una ridenominazione richiesta per togliere l’alone di “investimento-speculativo” che rischia di essere accostato a questa tipologia di asset class dai non addetti ai lavori. Una soluzione che non mi trova d’accordo: se gli investimenti alternativi riguardano l’economia reale, gli investimenti tradizionali che economia riguardano? Esiste un’economia immaginaria, irreale? Oltre alla provocazione, sono dell’idea che non possa esistere finanza senza economia in grado di creare valore aggiunto e viceversa. Non vi è dubbio, però, che gli strumenti non quotati permettono di “sentire più vicino” l’oggetto dell’investimento (azienda, infrastruttura o immobile che sia e forse anche per questo “strumenti per l’economia reale”), una sensazione del tutto italiana e che difficilmente si ritrova in altri paesi.

Proprio questa settimana ho avuto la possibilità di partecipare ad un incontro sul tema a cui presenziava anche il professore Fabio L. Sattin: nella sua presentazione riportava il concetto dell’”Italian way del private equity“. Il punto di partenza è l’affermazione dell’ex Ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Italia (Ronald P. Spogli) del 29 febbraio 2008: «I dati testimoniano che il private equity nel vostro paese (Italia) è un mercato in crescita e possiamo affermare che esiste una sorta di Italian way basata soprattutto su operazioni di espansione e consolidamento dell’attività imprenditoriale. Si ricorre principalmente a questo strumento per far crescere le proprie aziende per rafforzare e affrontare così in modo ottimale le nuove sfide dei mercati».

Un punto di vista esterno che permette una riflessione sulla diversa modalità con cui si fa private equity in Italia: una attività molto legata allo sviluppo delle imprese, al loro consolidamento in una realtà imprenditoriale spesso orientata al prodotto e poco alla managerializzazione della società. Un “buco di mercato” che ha permesso di creare interessanti opportunità per gli operatori finanziari che, oltre a nuova finanza, possono portare nell’impresa competenze di altissimo livello e contatti utili all’espansione della società. Questa “italian way” permette di approcciare l’investimento sotto un punto di vista più vicino alla visione di un investitore di lungo periodo quali i fondi pensione negoziali; questi enti bilaterali (nel CdA sono presenti rappresentati di datori di lavoro e lavoratori) dovrebbe capire questo meglio di chiunque altro: ma il percepito (investimenti speculativi) è spesso molto diverso dal reale.

Figura 1: Andamento PIL italiano (linea rossa) a confronto con l’andamento dello sviluppo del fatturato dell’aziende nella cui governance era presente un operatore di private equity

Veniamo ai numeri quindi: su questo aspetto ci aiuta la ricerca di PWC “The economic impact of private equity and venture capital in Italy” datata 26 ottobre 2018, nella quale in coerenza con i precedenti studi sul tema, vengono evidenziati due dati, a mio avviso, più significativi dell’“Italian way”.
I due grafici emersi dallo studio di PWC confermano che gli operatori di private equity, oltre a portare ritorni per gli investitori, contribuiscono alla crescita delle aziende sia in termini di fatturato (Figura 1) che, di conseguenza, in termini di forza lavoro (Figura 2) staccando in modo netto la media delle aziende italiane.

Da questi grafici emerge una obiezione forte: gli operatori, per massimizzare il loro lavoro, selezionano le migliori aziende e la via della crescita è sicuramente più semplice.

Figura 2: crescita del tasso di occupazione in Italia a confronto con l’aumento della forza lavora dell’aziende nella cui governance era presente un operatore di private equity

È vero, ma non è proprio questo (aziende maggiormente performanti e aumento della produttività) quello di cui abbiamo bisogno nel nostro Paese anche attraverso il consolidamento delle micro-realtà parcellizzate in tutto il territorio così da essere maggiormente competitivi a livello internazionale?

Sicuramente l’italian way non è la soluzione perfetta (non penso ne esistano) ma è un ottimo punto di partenza per il vero sviluppo della nostra economia, del nostro tessuto imprenditoriale e degli investitori che vi operano: un salto di qualità da sempre richiesto e mai effettuato che spiega, in buona parte, il cronico ritardo nei confronti con i peer europei. Ma non è mai troppo tardi!

*Cfo di un fondo pensione negoziale

Questo articolo fa parte del blog “Serve del catch up”, leggilo qui.

SHARE