Come e perché gli istituzionali stranieri investono in alternativi

di nicola barbiero*

La settimana del Salone del Risparmio non poteva non lasciare uno strascico di riflessioni, anche con riferimento al tema di questo blog. Nei tre giorni dell’evento ho avuto la fortuna di parlare con alcuni fondi pensione nazionali e alcuni operatori internazionali che mi riportavano la loro esperienza sul tema.

Gli investimenti alternativi, troppo spesso, “soffrono” la poca conoscenza degli asset owner nazionali che, pur disponendo di importanti patrimoni e di un orizzonte temporale molto elevato (aspetti entrambi necessari per questo tipo di asset class) rimangono spesso scettici di fronte all’opportunità di diversificare i propri portafogli con questo tipo di strategie.

Fuori dai nostri confini la situazione è significativamente diversa.

I vicini fondi pensione europei che operano nel primo (previdenza obbligatoria) e nel secondo pilastro (previdenza pubblica) hanno una storica esposizione a questa asset class (mediamente molto vicine al 5%-10% delle risorse in gestione); stessa cosa può dirsi per gli asset owner statunitensi, canadesi e asiatici dove il commitment in questo senso è decisamente più forte e strutturato tanto che il continuo aumento delle masse gestite sta guidando gli operatori verso un importante cambio di rotta.

In questo contesto, le evidenze empiriche riportano che sempre più investitori istituzionali internazionali optano per soluzioni “in house”, strutturando cioè un team interno che possa permettere loro di investire direttamente in determinate asset class e non più indirettamente, attraverso la selezione dei gestori. Non c’è dubbio che, anche in questo senso, le economie di scala possa presentare un valore aggiunto in termini di efficientamento dei costi e sotto l’aspetto di maggior fitting tra investitore ed investimento. Un trend, questo, che le case di gestione stanno monitorando attentamente e che potrebbe richiedere delle interessanti evoluzioni all’industria del risparmio gestito.

In questo tipo di analisi ci aiuta, oggi, Marco Danesin, Investment Manager per un importante fondo internazionale. “Negli ultimi 15 anni – conferma Danesin – l’industria del private equity è cresciuta e maturata sostanzialmente fino a diventare una parte fondamentale di molti portafogli di investitori internazionali, con i fondi pensione tra alcuni degli investitori più attivi in questo tipo di asset class. In particolare, i dati di Invest Europe evidenziano che quasi un terzo del capitale raccolto dai fondi di private equity europei è stato sottoscritto da fondi pensione, che si attestano come la principale categoria di investitori in termini assoluti.”

Una strategia che vale anche per il futuro “come conferma un terzo dei fondi pensione intervistati da un sondaggio di Greenwich Associates” – continua Danesin – “i fondi pensione si attendono di aumentare le proprie allocazioni a private equity nei prossimi anni, spinti principalmente da rendimenti che continuano a sovra-performare rispetto ad altre asset class nel lungo termine.”

In Italia iniziano a vedersi i primi segnali di sistema: è proprio notizia degli ultimi giorni la pubblicazione di un bando di gara promosso da un gruppo di fondi pensione che si riuniscono sotto il progetto IRIDE (leggi la notizia su financecommunity.it).

Partire da chi ha maturato maggiore esperienza per selezionare e applicare le best practice alla propria operatività: penso sia questo il necessario percorso che il mercato italiano dovrà compiere nei prossimi anni per un approccio strutturato ai private market.

La tre giorni al Salone e lo scambio con alcuni importanti operatori internazionali non poteva lasciarmi indifferente. I temi trattati e le persone incontrate ci permetteranno, nei prossimi approfondimenti, di approcciare il rapporto fondi pensione – private market sotto un altro, e spero più interessante, punto di vista: individuare le best practice internazionali per capire come applicarle nella nostra realtà.

 

 

*Cfo di un fondo pensione negoziale

Questo articolo fa parte del blog “Serve del catch up”, leggilo qui.

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